Scafisti
“Scafisti, pene fino a 30 anni” era il titolo d’apertura di un recente articolo del Corriere della Sera. Non che non li meritino, ma sono convinto che la minaccia non li spaventi. Anzi, peggio: butteranno in mare i loro clienti (i profughi) più al largo, aumentando il numero delle vittime. Appare evidente che la repressione non funziona e allora che fare? Occorre sottrarre agli scafisti i loro “clienti”.
È indispensabile creare sulla costa mediterranea dell’Africa delle iniziative agro-industriali che attraggano i profughi e li allontanino dalla tentazione della traversata. Come? Creando in quell’area delle aziende che impieghino i profughi e offrano loro una possibilità di guadagno. Se in Libia e in Tunisia ci fossero imprese (italiane ed europee) che offrissero un lavoro ai migranti, molti, invece di pagare gli scafisti per la traversata, accetterebbero di buon grado uno stipendio in terra africana. È un’opzione che va tentata senza abbandonarsi ciecamente al (comprensibile) desiderio di repressione. Le tecnologie sviluppate da Israele possono venire in aiuto a questo tipo di iniziative. La produzione di energia per mezzo della tecnica della concentrazione dell’energia solare sviluppata ad Ashalim, (che fornisce il 10% del fabbisogno energetico di Israele) costituisce la base per questo tipo di imprese. Sulla costa mediterranea di Israele, a Soreq, grandi quantità di acqua dolce sono ottenute mediante la dissalazione dell’acqua marina tramite l’osmosi inversa e l’ormai tradizionale irrigazione a goccia permette un uso parco, ma efficiente dell’acqua dolce disponibile. Invece che armare motovedette perché non si impiantano imprese agricole sulla costa mediterranea dell’ Africa che sfruttino la combinazione di queste tecnologie? Il movente primo è la “distrazione” dalla traversata dei molti profughi che affollano la costa del mare, ma in breve potrebbe anche divenire un ottimo business. Perché non tentare? Mi sembra ragionevole pensare che anche i libici e i tunisini sarebbero disponibili a collaborare.
Il presidio delle coste italiane, i tentativi di salvataggio e il ricovero nei centri di accoglienza dei sopravvissuti costa (non poco). Perché non provare una via diversa?
Roberto Jona, agronomo