Koshersoul, il cibo del cuore

Il miglior libro ebraico dell’anno parla di cibo, identità e memoria. L’ha scritto Michael Twitty, chef di prestigio e storico della cucina, e fin dal titolo è tutto un programma: Koshersoul – The faith and food journey of an African American Jew. Intrecciando autobiografia, storia culturale, teologia, ricerca genealogica e ricette, il volume, che lo scorso anno si è aggiudicato negli Stati Uniti il National Jewish Book Award, schiude un modo nuovo di guardare a se stessi e al tessuto della propria appartenenza.
La parola Koshersoul salda due termini che di solito viaggiano separati. Kosher, ciò che corrisponde alle regole alimentari ebraiche e nell’inglese corrente è venuto a indicare ciò che è affidabile, valido, genuino. Soul, anima, il termine spesso associato al cibo, alla musica, alla danza che allude a un senso di pace, comfort, generosità.
Soul food, alla lettera il cibo dell’anima, si riferisce alla cucina degli afroamericani e più in generale a quella di altre tradizioni. E Koshersoul declina il tema in una chiave nuova per parlare di un cibo che nutre il cuore prima del corpo, segna un ritorno a casa, guarda al futuro ed “è un modo di capire chi siamo stati e perché, e possibilmente gettare uno sguardo su dove stiamo andando”.
A partire da qui Michael Twitty illumina l’intreccio fra tradizione ebraica e afroamericana – due esperienze a prima vista estranee che nel suo racconto si rivelano più vicine di quanto si immagini. Già autore di The cooking gene, Twitty non si accontenta di volare in superficie. “Non mi propongo mai di scrivere volumi di ricette che si perdono alla svelta fra tanti. Voglio documentare il modo in cui il cibo trasforma le vite delle persone mentre le persone trasformano il cibo”, chiarisce.
E se alla fine del libro le ricette ci sono e promettono delizie, il succo di questo lavoro e il suo fascino sono nell’originalità di un racconto che incrocia due esperienze culinarie mostrando come nel tempo vengano a contatto, si influenzino, rispecchino e talvolta sovrappongono declinando entrambe una condizione di esilio e la nostalgia della patria perduta. “Il cibo di entrambe le diaspore – scrive – dipende dalla memoria. Una memoria è la traiettoria del viaggio del popolo, l’altro sono i frammenti e i pezzi delle vite individuali modellate da antichi modelli e percorsi”.
Mai come in questo caso, avvisa, il rischio di semplificare la realtà è sempre in agguato. E dunque “questo è un libro su una parte del cibo dei Neri che è anche il cibo degli ebrei; questo è un libro che è sul cibo ebraico che è anche Nero perché è un libro sui Neri che sono ebrei e sugli ebrei che sono Neri”. La varietà di percorsi che anima queste pagine, dagli Stati Uniti ai Caraibi all’Africa, può lasciare perplessi tanto più, nota Twitty, che molti rifiutano la stessa idea che come lui si possa essere neri ed ebrei. Ma a guardare bene si realizza che tracce di quest’intreccio spesso erano già sotto gli occhi, come la donna nera che appare in un angolo della magnifica Haggadah di Sarajevo.
In falsariga corre la traiettoria che quindici anni fa ha portato Twitty a diventare ebreo, insegnante di ebraico e nel 2011 attraversare il Sud degli Stati. In questo tour, documentato nel fortunato blog Afroculinaria, ha visitato decine di piantagioni dove ha incontrato la gente del posto e i discendenti degli schiavi, studiato gli archivi culinari e cucinato. Obiettivo: rintracciare le complesse vie del cibo dall’Africa all’America lungo le rotta atlantica degli schiavi e ricostruire la cucina degli afroamericani nelle piantagioni.
In quel viaggio come i suoi avi ha raccolto cotone per giornate intere, tagliato legna e lavorato nelle risaie nutrendosi d’acqua e focaccia di granturco. “Non sai niente della cucina del Sud o della schiavitù finché non hai speso 16 ore nei campo sudando, evitando serpenti velenosi e tagliandoti le mani con il cotone”, ha spiegato.
Quando entra in una cucina per creare il suo cibo, dice, insieme a lui entra il complesso mosaico della sua identità: la ‘razza’ come la si intende in America e in Occidente, l’insegnamento ebraico, la cultura afroamericana, lo spettro spirituale di entrambe le comunità; la cultura gay e le tradizioni popolari. “Il cibo – scrive è la lente primaria per navigare la mia cittadinanza nel mondo ebraico e il mio diritto di nascita di uomo nero in America”. Non è un mistero che un’accesa conflittualità abbia nel tempo spesso separato le due comunità ma, nota, per quanto “siano significative e attraggano la nostra fame per il dolore e gli scontri, non possono rimpiazzare le narrative individuali, le vite autentiche e il modo in cui la gente costruisce se stessa”. Il valore di questi mondi è immenso come lo è il valore dell’ospitalità che, in entrambe le comunità, proprio nella cucina trova una delle sue espressioni centrali.

Daniela Gross