Un momento magico

Dopo la festa di Shavu’ot, la festa che celebra il dono della Torà, si è tornati a leggere la parashà con il suo ciclo annuale. La parashà di Nasò è piena di contenuti diversi, che vanno dal conteggio dei levìti, al problema della donna considerata adultera da suo marito – sotà, alla assunzione dei voti di astensione dal radersi tutto il corpo e non bere vino e sostanze inebrianti – nazir, alla cerimonia di inaugurazione del mizbeach (l’altare dove venivano offerti i sacrifici) nel Mishcan – il Tabernacolo del deserto. Al centro, fra le due problematiche – la sotà e il nazir – e l’inaugurazione del mizbeach, troviamo la “bircat cohanim”. La benedizione che i Sacerdoti impartivano e tutt’ora impartiscono al popolo di Israele, con i tre versetti da tutti conosciuti che recitano le seguenti parole:
“Jevarekhekhà A’ ve ishmerekha – Ti benedica il Signore e ti custodisca,
“Jaer A’ panav elekha vi chunnekka – Rivolga il Signore il Suo volto verso di te e ti renda grazia,
“Issà A’ panav elekha ve jasem lekhà shalom – Innalzi il Signore il Suo volto verso di te e ti conceda la pace”.
Dopo la descrizione di un comportamento al limite della trasgressione – la Sotà – e dell’eccesso di rigore – il Nazir, la Torà torna, con il comandamento ai Cohanim di benedire tutto il popolo, a ridimensionare gli eccessi; è infatti scritto al termine della Benedizione:
“ve samù et shemì al benè Israel va anì avarekhem – e porrete il mio Nome sui figli di Israele e Io li benedirò”.
Cioè, commentano i nostri Maestri che il Signore benedice, attraverso i suoi Sacerdoti, tutto il popolo indistintamente, senza bisogno di eccessi.
È molto meglio comportarsi da buon ebreo, spiegano i commentatori, senza eccessi che poi non si possono portare a termine, come il Nazir che doveva interrompere il suo voto, che pronunciare voti o promesse e non riuscire a portarli in fondo.
Ma a parte dissertazioni su come si deve o non si deve essere religiosi e quanto è il limite giusto, vorrei soffermarmi proprio sulla “bircat cohanim” che tutt’ora suscita in ogni ebreo, vicino o lontano dall’osservanza delle mizvot, un sentimento profondo e di profonda commozione.
Proprio in questi due giorni di festa solenne, appena trascorsi, abbiamo vissuto il magico momento, per chi è venuto in Tempio, della bircat cohanim.
È sempre un momento mistico e colmo di emozioni quando si stendono i talledot sulle teste dei propri figli, dei nipoti o, per chi ha ancora la fortuna di averli in vita, sentirsi la mano benedicente del proprio padre e per le donne, della propria madre, sul capo, chino per non guardare nella direzione da dove i cohanim impartiscono quella meravigliosa berakhà.
Si percepisce nell’aria una presenza diversa e una diversa atmosfera riempie il Tempio e tutti coloro che sono riuniti in esso; è la presenza della Shechinà, che invade l’ambiente sacro, dandogli una maggiore sensazione di sacralità.
Ognuno avvolto nella sua intimità, con le persone che gli sono più care, ripensa a qualcosa che lo lega a un passato, a volte vicino, a volte lontano, ma per lui o per lei sempre molto presente.
Questa è e sarà la forza del nostro popolo, una forza che non può e non deve essere paragonata a nessun altro, poiché noi ebrei, attraverso la fede che ci lega al Signore Iddio ad ogni costo; sono altresì sicuro che non esiste un solo ebreo in tutto il mondo che, nonostante si professi “laico” o lontano, non provi una sensazione così forte, almeno in momenti come questi.
Questo è il motivo per cui la bircat cohanim è collocata proprio in un punto del testo della Torà, così complesso da capire e così difficile da osservare, per coloro che desiderano osservarlo.
La spiegazione di essa sta proprio nelle parole che seguono i tre versetti benedicenti:
“ve samù et shemì al benè Israel va anì avarekhem – e porrete il Mio Nome sui figli di Israele – su tutti i figli di Israele e Io li benedirò”.

Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Venezia