Identità ebraica al femminile,
tra presenza e assenza

Lungo è il percorso di Ben Atar, il protagonista di Viaggio alla fine del millennio di Yehoshua, grande il suo amore per le mogli, ricca di spezie, profumi e agi la nave che lo porta dalle coste marocchine fino a Parigi, a difendere le ragioni della sua bigamia in un confronto tra culture destinate ad allontanarsi sempre più: da un lato vi sono i sefarditi tra i quali vive Ben Atar, abituati a una relativa integrazione e a una diffusa tolleranza, dall’altro gli ashkenaziti isolati e discriminati che si arroccano in “antiche virtù” e nuove intransigenze. All’incontro cartaceo tra questi due mondi in tempi molto più recenti è dedicato Presenza/assenza. L’identità ebraico-biblica femminile nelle letterature moderne di lingua spagnola e tedesca (a cura di Paola Bellomi e Arturo Larcati, Giuntina 215 pp., 20 euro – con la partecipazione di studiosi di ambiti diversi), una mappa degli scrittori ‘spagnoli’ e ‘tedeschi’, per lo più ebrei ma non esclusivamente, che tra Ottocento e Novecento hanno trovato ispirazione nel Libro, attratti dalle figure femminili per il loro indiscutibile fascino, ma anche perché suggeriscono un paradigma che coinvolge ruoli, diritti, progetti di rinnovamento.
Più guardingo e originale l’avvicinamento agli autori che affrontano questo tema nella galassia di lingua spagnola. Appare determinante il filosemitismo che, a partire dal 1904, si sviluppa all’inizio soprattutto in Spagna riannodando legami con una realtà ebraica che sembrava definitivamente cancellata dopo il decreto dell’Alhambra: si inizia a vedere in coloro che hanno conservato il giudeo spagnolo, al di qua e al di là dell’Oceano, la “proiezione di una famiglia allargata […] finalmente ritrovata e riunita”. La riscoperta delle radici ebraiche guida gli autori ispanici che il libro presenta: scrittori e scrittrici che rievocano il racconto biblico per affidare alla tradizione ebraica sia una ritrovata coscienza identitaria che un messaggio partigiano contro le derive reazionarie e contro ogni forma di antisemitismo.
Sono Rafael Cansinos Assens che si misura con la figura di Sulamita, nuova Eva che nel suo canto d’amore restituisce all’uomo le immagini dell’Eden; cangianti ed evocative appaiono invece le immagini di Esther, Debora, Giaele e Ruth nella torrenziale produzione del catalano Salvador Espriu i Castellò che scorge nell’ebraismo “una luce singolare e inesorabile” che irresistibilmente lo attrae; troviamo Sarah, Ester, Rachele, Lia, Emma e Anna citate e trasfigurate nell’opera uno spagnolo cosmopolita come Max Aub e, infine, la moglie di Lot in Myriam Moscona, poetessa messicana, di origine bulgara che dimostra una profonda conoscenza dei Testi e delle interpretazioni .
Consolidata invece, nei Paesi di lingua tedesca, l’abitudine a guardare alla Bibbia in cerca di “nomi, leggi, ordine e sogni”. Ma, se Thomas Mann cerca di sondare “il pozzo del passato” rifacendosi a Giacobbe e Giuseppe, sono numerosi gli scrittori che prediligono figure femminili, più vicine alla natura, annunciatrici di eternità nel corpo e nei sogni. Centrale tra questi personaggi che la letteratura cita e a volte stropiccia la suggestione di Ester, declinata per assonanze, speranze e ribellioni. Nel volume di Bellomi e Larcati Ester svetta tra le molte figure femminili trattate: da Ruth, a Eva a Michal a Tamar, alla ‘moderna’ Deborah, che troviamo nelle rielaborazioni di Else Lasker Schüler, Joseph Roth, Grete Weil, analizzate nel libro con sapienza e partecipazione.
In una rilettura libera del Testo, una Esther moderna appare come protagonista in I miracoli della vita di Stefan Zweig: fuggita da un pogrom, quello che la fanciulla sconfigge non è l’odio, l’inganno e la morte per tutto il suo popolo, ma l’impotenza di due anime oppresse dalla inutile violenza del mondo. Eterodossi e, a tratti dissacranti, anche i testi elaborati nel primo dopoguerra da Max Brod, poeta sionista, e da Walther Hasenklever, lo scrittore inviso al regime che, nei mesi di prigionia in Francia, scrive Una regina di nome Esther. In Brod anche Haman è ebreo, ma afflitto da jüdischer Selbsthass, l’odio di sé ebraico diagnosticato pochi anni dopo da Theodor Lessing. Insieme a Esther lamenta l’assordante silenzio di Dio che, pure, alla fine del dramma, darà vita a un “miracolo nascosto” a testimonianza della sua azione nel mondo e del suo misericordioso progetto di salvezza.
Come farsa, nel ricordo della ricca tradizione jiddisch e tedesca del Purimspil, lo propone Hasenklever come testo militante contro il Terzo Reich: Haman mima gli strumenti lessicali e retorici della propaganda nazista, Mordechai idealizza, fuori tempo massimo, la cosiddetta ‘simbiosi’ ebraico-tedesca, mentre Esther si fa interprete di un ideale umanitario che recupera i tramontati sogni dell’espressionismo e le fragili speranze di una pace futura.
Infine, Gertrud Kolmar, la poetessa berlinese morta ad Auschwitz, tratteggia la sua Ester (accanto alla figura di Tamar) in Quattro poesie religiose del 1937, un “maestoso manifesto di resistenza alla violenza antisemita”, fatto di isolamento, esclusione, barbarie. Al centro il rapporto della donna con il re: un legame arcaico in cui bellezza e dolore – il dolore del suo popolo e una radicale subalternità femminile – congiurano per sovvertire l’idea tradizionale di regalità e al posto di ricchezza e potere pongono consapevolezza, sapere e speranza.

Roberta Ascarelli