“Editoria ebraica, voce del pluralismo”
Il Salone del Libro di Torino si è chiuso con la consapevolezza che il mondo dell’editoria in Italia, al di là delle criticità e della necessità di investire ancora molto sulla lettura, può contare su un pubblico ampio e in crescita. La rassegna ha infatti dimostrato, numeri alla mano, come l’interesse per il libro e per gli autori sia ampia e porti centinaia di migliaia di persone a seguire incontri e a passeggiare al Salone tra gli innumerevoli stand degli editori. Molti dei quali hanno dichiarato di aver registrato in questa edizione della rassegna un significativo incremento delle vendite. “A me pare che, al di là di tutto, lo stato dell’editoria italiana non sia così cattivo come spesso si dice, anche rispetto ad altri paesi europei” evidenzia a Pagine Ebraiche Edoardo Roberto Barbieri, direttore del Centro di Ricerca Europeo Libro Editoria Biblioteca. Con ironia poi aggiunge: “In ogni caso quando gli editori si lamentano bisogna tener conto del passato. Sono oltre 500 anni che chi cura e stampa libri si lamenta che non si vendono abbastanza o costa troppo produrli. Lo leggiamo anche nei primissimi documenti sulla stampa. Quindi non c’è nulla di nuovo”. Una battuta che però ricorda il percorso secolare dell’editoria, evolutasi fino a diventare “oggi una voce del pluralismo: in Italia ci sono tantissime case editrici che da un certo punto di vista creano una dispersione infinita, ma dall’altro sono la rappresentazione di una cultura plurale”. Un tema caro a Barbieri che proprio pochi giorni dopo il Salone ha voluto mettere a fuoco, assieme alla Fondazione Cdec, un elemento centrale di questo pluralismo: la voce ebraica. Autorevoli studiosi ed esperti si sono infatti ritrovati nelle sale del Memoriale della Shoah di Milano per partecipare al seminario “Il contributo del mondo ebraico allo sviluppo dell’editoria italiana. Dall’Unità alle leggi razziali”. Un’occasione per riflettere sul ruolo degli ebrei nella costruzione della cultura italiana. Ma anche per ricordare una volta di più il danno profondo che comportarono per quest’ultima il fascismo e le sue leggi razziste.
I fratelli Treves, Leo Olschki, Angelo Fortunato Formiggini, le famiglie Calabi e Lattes. Sono solo alcuni degli editori di cui si è parlato nel corso del convegno. Tutti hanno in comune un’identità ebraica, chi più chi meno evidente. Quali sono gli altri elementi che condividono e perché è importante ricordarli oggi?
I nomi che ha citato così come gli altri editori presi in esame nel seminario iniziano la loro vita imprenditoriale nell’Ottocento. Sono sì personalità ebraiche, ma allo stesso tempo stampano testi che non fanno parte della vita religiosa. Ed è questo dato che ci interessava evidenziare: raccontare il segno che hanno lasciato più in generale sullo sviluppo dell’editoria italiana. E questo contributo possiamo identificarlo in una grande apertura internazionale. Banalmente era gente che sapeva le lingue, mentre invece molti degli altri editori no. Vengono per lo più dal mondo del commercio del libro, mentre gli altri per lo più da quello della tipografia. È un’altra logica che contribuisce a trasformare il settore. E poi c’è una capacità imprenditoriale di diversificazione dei prodotti editoriali che farà da modello all’editoria contemporanea.
Può fare un esempio?
Formiggini sicuramente, che farà una fine tragica togliendosi la vita dopo l’emanazione delle leggi del 1938. Lui ha portato fino alle estreme conseguenze questa genialità, questa capacità di guardare lontano che hanno questi uomini. Formiggini ha il merito di inventarsi la comunicazione editoriale; di come raccontare il libro; si inventa uno strumento come “Chi è italiano”. Sarà lui a ideare il progetto dell’Enciclopedia italiana che poi Gentile gli rubò. Da un lato rappresenta un esempio di editore ebreo dell’epoca, dall’altro è anche un’eccezione. È sempre in perdita, si mangia il patrimonio di famiglia, mentre invece i Treves, gli Olschki, i Lattes sono aziende che poi hanno avuto fortuna perché più oculate e meno avventate nelle loro iniziative. E poi c’è un altro elemento che accomuna direi tutti questi editori.
Quale?
La capacità di ripensarsi in un’Italia diventata da poco unita. Fino a quel momento parliamo di un mondo molto legato ai singoli stati della penisola, alle città. L’Unità cambia le cose e gli editori ebrei si fanno interpreti di questo cambiamento. Io poi conosco bene la storia degli Olschki: qui c’è quasi un’ostentazione di italianità e un orgoglio oggettivo. Quando si leggono le loro risposte al fascismo che chiede conto di quanti ebrei lavorino nella casa editrice, la risposta è molto dura. Olschki a questa domanda risponde: ma come, io sono ufficiale dell’esercito, ho combattuto in guerra, sono stato decorato e mi chiedete se sono italiano? E questo dimostra l’orgoglio e forse anche una certa riconoscenza fino a quel momento ai Savoia che avevano permesso l’Emancipazione. Avevano aperto agli ebrei un mondo in cui non sentirsi a disagio e poter lavorare. Era nato così un ecosistema positivo.
Fino al tradimento del fascismo.
Per gli editori ebrei è un periodo complicato. All’inizio molti cercano di trovare un compromesso. Anche se non sono fascisti, trovano un equilibrio con il potere. Si comportano insomma né meglio né peggio di tanti altri. Ovviamente ci sono anche gli antifascisti, ma sono relativamente pochi. Poi arrivano le leggi razziali e le cose cambiano radicalmente. Inizia un processo di cancellazione e depauperamento che tocca ovviamente anche l’editoria e la cultura italiana. Si perde quell’apertura internazionale.
Chi riesce a sopravvivere in qualche modo è l’esperienza degli Olschki, che tra l’altro nel 1909 avevano acquistato la tipografia Giuntina, da cui discende l’attuale editore. Lei oggi invece dirige la rivista La Bibliofilia, che si occupa di storia del libro e bibliografia, fondata proprio dal capostipite, Leo, nel 1899. Che figura era?
Nato nella Prussia Orientale, aveva fondato la sua casa editrice a Verona nel 1886, per poi spostarsi a Venezia e infine a Firenze. A me interessava soprattutto per il suo lavoro da libraio antiquario, ma comunque è un personaggio che continua a meravigliarmi. Lui ad esempio si presenta come editore dantesco, anche se non si può dire fosse la sua caratteristica principale. Eppure lo sente suo, forse anche per la citata questione dell’italianità. E poi, per richiamare la sua apertura al mondo, posso richiamare un passaggio: “Io sono disposto a corrispondere in quasi tutte le lingue europee con chi vorrà scrivermi”. Una manifestazione certo di un ego molto grande, ma di altrettanta cultura. Un personaggio speciale che merita di essere ricordato, così come gli altri editori ricordati nel seminario per capire anche parte della nostra storia.
Da storico e studioso del libro lei ha anche un legame con Gerusalemme.
Collaboro con la Biblioteca generale della Custodia di Terra Santa, ossia la biblioteca storica dei francescani a San Salvatore di Gerusalemme dove si conserva un’importante raccolta di materiale librario accumulato dai frati minori durante i secoli della loro permanenza nell’area. Stiamo lavorando da tempo a mostre per valorizzare questo patrimonio e devo dire che la risposta è ottima e trasversale. Si è create una rete di amicizie e contatti, che coinvolge l’Università Ebraica, alla quale teniamo molto. Crediamo che la cultura della storia del libro possa essere un ottimo strumento per incontrarsi, dialogare e anche discutere. Ovviamente sono piccole cose, ma possono dare un contributo nella convivenza tra le diverse comunità linguistiche, religiose e culturali della città.