L’evento al Museo ebraico di Roma
Sinagoghe e cimiteri, duemila anni di storia

La mostra “Case di vita. Sinagoghe e cimiteri in Italia”, inaugurata di recente al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, riserva uno spazio significativo a vicende e testimonianze della Roma ebraica. Dall’antichissima sinagoga rinvenuta nell’area archeologica di Ostia fino al tempo presente, molti gli spunti su cui riflettere e che saranno al centro di un incontro in programma nel pomeriggio al Museo ebraico della Capitale. Introdotto dalla direttrice del Museo ebraico Olga Melasecchi e dallo storico dell’arte Davide Spagnoletto, l’evento – al via alle 18.30 – vedrà gli interventi dei due curatori Andrea Morpurgo e Amedeo Spagnoletto, che del Meis è anche il direttore. Un’occasione per presentare sia la mostra che il suo catalogo, edito da Sagep Editori, da cui è tratto il seguente brano a firma di Asher Salah su come il cinema racconta e ha raccontato i luoghi ebraici d’Italia.
La ritualità ebraica sul grande schermo
Nella vasta letteratura disponibile sull’immagine degli ebrei al cinema e nonostante la crescente influenza negli studi cinematografici dello ‘spatial turn’, contrassegnato da una maggiore attenzione alle valenze ideologiche della rappresentazione dello spazio, è da lamentare una cospicua lacuna per quanto riguarda i luoghi legati all’esperienza ebraica raffigurati sul grande schermo. Le immagini di ghetti, sinagoghe e cimiteri, non meno che la caratterizzazione di personaggi o la presenza di determinati simboli e di oggetti, come la stella di Davide e la menorah, esplicano nell’apparato figurale e diegetico del cinema molteplici funzioni, tra cui quella di sintetizzare complesse situazioni esistenziali e di tracciare i contorni di specifici contesti storici e sociali. In quanto segue si passano in rassegna trentuno lungometraggi fiction italiani in cui appaiono alcuni siti a esplicita connotazione ebraica, tenendo presente la distinzione tra ‘luogo’ in quanto semplice perimetro geografico e ‘spazio’, che corrisponde invece al senso che viene attributo a un luogo da una determinata prospettiva cinematografica e dagli atti performativi che vi si svolgono (De Certeau 2010). Data la preponderanza di film che trattano del trauma della Shoah e delle persecuzioni antisemitiche del Novecento, l’immagine dell’ebreo si è trovata spesso automaticamente associata ai reticolati e alle baracche dei campi di sterminio (Marcus 2007; Minuz 2010). Qui invece ci si interesserà alle modalità con cui il patrimonio architettonico ebraico è stato rappresentato sugli schermi italiani.
SINAGOGHE
Tra gli edifici sinagogali più ritratti al cinema si trova indubbiamente il Tempio Maggiore di Roma. La prima e tra le più articolate rappresentazioni della Roma ebraica risale al cortometraggio Luce, Israele a Roma, di Romolo Marcellini, una docufiction del 1948 su soggetto di Luigi Barzini in cui si narra il passaggio nell’immediato dopoguerra di un ebreo romano rifugiatosi in America nel 1939 per una rapida visita della sua città natale prima di riprendere l’aereo a destinazione della Palestina. La sinagoga offre al personaggio narrante la possibilità di riflettere sulla catastrofe abbattutasi sulla sua comunità, mostrando però anche la vita che riprende nella zona del Portico d’Ottavia. Il filmato offre inoltre una rarissima testimonianza di una preghiera di Shaharit nell’oratorio Panzieri-Fatucci, in presenza del suo direttore, il rabbino Alfredo Ravenna.
Il Tempio Maggiore costituisce il set principale in cui si svolge il film di Lizzani, L’oro di Roma (1961), il primo ad affrontare la dimensione ebraica delle persecuzioni nazifasciste in Italia. Con una scelta molto originale in un cinema italiano in cui sporadiche erano state sino ad allora le rappresentazioni di cerimonie religiose ebraiche, il film si apre con una lunga scena di quasi tre minuti in una sinagoga gremita con la processione dei rotoli della Torah a Shabbat mattina, ricostruita con una precisione quasi etnografica grazie anche alla consulenza dello scrittore Alberto Lecco e del rabbino Augusto Segre. Ai locali del tempio viene assegnato il compito di mettere in scena la comunità come corpo basato su una fondamentale solidarietà di fede e sul legame vivo con la tradizione ebraica, nonostante le tensioni drammatiche che la attraversano riguardo all’opportunità di sottostare alla richiesta di Kappler e alle modalità di raccolta di cinquanta chili d’oro.
La caratteristica cupola a padiglione a base quadrata e il massiccio corpo in stile eclettico del Tempio Maggiore sono visibili come segno distintivo del quartiere ebraico di Roma in almeno altri quattro lungometraggi: Lasciati andare di Francesco Amato del 2017, e in tre sceneggiati televisivi RAI, Storia d’amore e d’amicizia di Franco Rossi del 1982 (unico film italiano a presentare immagini di un miqveh, il bagno rituale), La Storia di Luigi Comencini del 1986, Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma, di Giulio Base, 2020.
Con uno strappo al realismo dell’ambientazione ferrarese del film anche le riprese dei figli raccolti sotto lo scialle rituale, il talled, dei padri, durante la benedizione sacerdotale, nel Giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica del 1970, furono effettuate nei seminterrati del Tempio Maggiore di Roma, dove dal 1932 è allestito l’oratorio di rito spagnolo a caratteristico schema planimetrico bifocale. Lo stesso oratorio appare con maggior verosimiglianza storica nel film di Luigi Magni, Nell’anno del Signore, del 1969, ambiento nel 1825 durante il pontificato reazionario e intransigente di Leone XII e in cui si svolgono nozze tra minorenni per sfuggire alla politica conversionistica del papa.
Sinagoghe di altre comunità italiane sono assai infrequenti. Nel film Diario di un italiano, di Sergio Capogna del 1973, ispirato al racconto breve Vanda di Vasco Pratolini, la facciata della sinagoga di via Farini a Firenze, bersaglio di una sassaiola da parte della teppaglia fascista, funge da metonimia di un’intera comunità vittima della persecuzione nell’indifferenza dei passanti.
Insolito per la sua durata il lungo campo statico di oltre dieci minuti della lettura mattutina della Torah nella sinagoga di Firenze in settimana ripreso dal matroneo nel film del 1976 di Jean-Marie Straub e Danielle Huillet, Fortini/Cani, un documento cinematografico basato sul testo di Franco Fortini, I cani del Sinai, scritto all’indomani della guerra dei sei giorni. La ripresa dall’alto e da lontano sottolinea la distanza emotiva della telecamera rispetto alla cerimonia che si svolge più in basso, mentre alle parole della parashah si sovrappone la voce di Fortini che insiste sui “riti incomprensibili nella sinagoga dove qualche volta suo padre lo accompagnava” e sui tallitot sulle spalle dei parenti che “gli apparivano come travestiti per una cerimonia segreta”. Il senso di vuoto dello spazio liturgico è ulteriormente accentuato dalla ripresa di spalle del rabbino Fernando Belgrado affiancato da pochi assistenti, in un’epoca, prima della ricomposizione dello spazio sinagogale negli anni Novanta, quando la tevah si trovava davanti all’aron, lasciando quindi fuori campo la presenza di eventuali altri partecipanti al rito. Il ricco patrimonio sinagogale piemontese fa da sfondo al mediometraggio di Giorgio Treves, Il ritorno del 1980, in cui un violinista ebreo, impersonato da Uto Ughi, esegue dei brani musicali in varie sinagoghe della provincia, tra cui Cuneo, Mondovì, Casale, Moncalvo e Ivrea, per rivitalizzare quei luoghi ormai quasi abbandonati. La sinagoga monumentale di Torino appare in Manila Paloma Blanca del 1992, di Daniele Segre, regista anche del documentario del 2006, Sinagoghe: ebrei del Piemonte (Picchietti 2006). L’importanza della Trieste ebraica nell’immaginario letterario novecentesco non ha un analogo riscontro in quello cinematografico. Uno scorcio in esterno dalla sinagoga di Trieste si può notare ne La città di Miriam, di Aldo Lado del 1983, basato sull’omonimo romanzo di Fulvio Tomizza, mentre Simone Segre (Alessandro Gassman), alle prese con le sue radici ebraiche, si aggira trasognato tra i banchi della sinagoga nel film di Mauro Mancini del 2020, Non odiare.
Infine la sinagoga di Genova, che appare nel film Fuga per la libertà di Carlo Carlei del 2008, tratto dalla biografia dell’aviatore e resistente ebreo Massimo Teglio, e quella dell’ormai scomparsa comunità di Sabbioneta nel contado mantovano, di cui si vede anche il cimitero, nel corto di Ghila Valabrega Felice nel box del 2014, sono un unicum per quanto riguarda insediamenti ebraici periferici e di scarsissima consistenza numerica.
In un corpus costituito da quasi trecento film di argomento ebraico su un arco di centoventi anni di storia del cinema italiano (Salah 2007; Salah 2012), il numero limitato di rappresentazioni di sinagoghe dimostra la scarsa pregnanza nell’immaginario collettivo italiano dei luoghi dove si svolge il culto ebraico. Anzi, parrebbe quasi che le principali cerimonie religiose degli ebrei avvengano nella sfera privata della famiglia o comunque in spazi diversi da quelli ufficialmente concepiti per una funzione rituale.
La preghiera serale di arvit del cappellano militare ebreo dell’esercito americano nel quinto episodio di Paisà (Rossellini 1946) si svolge nella sua stanza, la recitazione del salmo 94 in Il generale della Rovere (De Sica 1959) da parte degli ostaggi ebrei nel carcere di Regina Coeli, il minian a Ellis Island in Nuovomondo (Crialese 2006) nella sala di attesa degli immigranti, così come i matrimoni ebraici in Il grido della terra (Coletti 1948) sul ponte di una nave o in Hotel Meina (Lizzani 2007) nell’albergo sul lago Maggiore. Lo stesso si dica per quanto riguarda riti funebri, come la veglia del defunto in una dimora del ghetto in L’oro di Roma (Lizzani 1961) o la hashkavah davanti al cippo commemorativo a Volterra del professor Emanuele Wald Luzzatti in Le vaghe stelle dell’Orsa (Visconti 1965). Inoltre, la scarsità di esempi di luoghi connessi al rito e alla liturgia ebraici nel cinema italiano, tutti successivi alla fine della Seconda guerra mondiale e con un tendenziale aumento negli ultimi decenni, è rivelatrice di una percezione dell’alterità ebraica non necessariamente in termini religiosi quanto piuttosto culturali. Tuttavia, operando una drastica selezione rispetto alla numerose altre possibilità, come avrebbero potuto essere i bagni rituali, i ristoranti kasher, le scuole ebraiche, quasi del tutto assenti sugli schermi nostrani, contrariamente a quanto avviene nelle cinematografie di altri paesi, sono soprattutto le sinagoghe e i cimiteri a fungere al cinema da ‘luoghi antropologici’ ebraici per eccellenza, quel perimetro dove secondo Marc Augé, vi è una “coincidenza perfetta tra disposizione spaziale e organizzazione sociale” con i suoi tre caratteri costitutivi di identità, relazione e storia.
Anzi, in quasi tutti i film di questa rassegna, le immagini di tali luoghi antropologici ebraici, pur nella varietà di significati ad essi attribuiti a seconda dei contesti e delle epoche, tendono a confluire in un simile universo semantico, in cui, come nei versi di Umberto Saba, Via del Monte, la sinagoga sembra affiancata al cimitero in un unico campo visivo.
“A Trieste ove son tristezze molte, e bellezze di cielo e di contrada, c’è un’erta che si chiama Via del Monte. Incomincia con una sinagoga, e termina ad un chiostro; a mezza strada ha una cappella; indi la nera foga della vita scoprire puoi da un prato, e il mare con le navi e il promontorio, e la folla e le tende del mercato. Pure, a fianco dell’erta è un camposanto abbandonato, ove nessun mortorio entra, non si sotterra più, per quanto io mi ricordi: il vecchio cimitero contrada: degli ebrei, così caro al mio pensiero, se vi penso i miei vecchi, dopo tanto penare e mercantare, là sepolti, simili tutti d’animo e di volti”.
Asher Salah
(Nelle immagini: l’inaugurazione della mostra al Meis, una scena in sinagoga dal film “Nell’anno del Signore”)