“La giustizia climatica
inizia dalla responsabilità”

“Responsabilità” è la parola che più di tutte ha segnato la tappa veneziana di “Articolo 3: diversi tra uguali”. Il terzo incontro della rassegna ideata da UCEI in collaborazione con il MEIS per i 75 anni della Costituzione ha visto dialogare Haim Baharier, Laura Boella e Roberto Cicutto, con la moderazione di Giovanni Levi. Tanti gli spunti di riflessione per un mondo dove il cambiamento non è solo quello climatico. Sotto la volta dell’Ateneo Veneto, un pubblico numeroso e attento ha potuto seguire novanta minuti di interventi, densi di contenuti ed elaborati da tre relatori d‘eccezione. Al centro del dialogo la declinazione dell’articolo della Costituzione che parla di uguaglianza e le sue implicazioni con ambiente e giustizia climatica. Ma a ricordare quanto la parola “responsabilità” sia collegata a questa riflessione su una natura in cambiamento è stato anche l’eco dei passi dei bambini che, in contemporanea all’incontro, in un altro salone dell’Ateneo, stavano partecipando al laboratorio “L’uguaglianza fa la differenza”, realizzato da MEIS e Coopculture: attraverso il gioco, si è voluto rendere evidente come ogni identità diventa un valore solo se unita ad altre diverse e complementari. Se oggi si parla di ambiente è anche per loro e per il futuro che rappresentano.
La prima a mettere in campo la parola “responsabilità” è stata la filosofa morale Laura Boella, con un riferimento ad Hans Jonas: il primo che abbia correlato il degrado ambientale con la necessità di immaginare, per il mantenimento della vita sul pianeta, un modello simile a quello di un genitore di fronte a un bambino. “Capire la vulnerabilità della natura dovrebbe risvegliare il nostro senso di un destino comune, affermando la priorità di un obbligo verso di esso”, spiega Boella. “I giovani parlano di diritto al futuro che non può essere ignorato, ma responsabilità vuol dire rispondere a questo dovere anche per chi non può decidere”.
Il presidente della Fondazione Biennale di Venezia Roberto Cicutto ha portato invece l’attenzione sulla responsabilità delle arti e dell’architettura nei confronti dei problemi sociali in contesti specifici. “Per troppo tempo forse anche le istituzioni culturali hanno equivocato su quelli che sono i loro doveri: certo c’è l’impegno a raccogliere conservare e diffondere il sapere, ma nel contesto in cui si trovano. Molti pensano che l’attività di Biennale sia solo un fattore di moltiplicazione del turismo, certo c’è anche questo aspetto, ma i contenuti e l’uso della città impongono un equilibrio. Abbiamo il dovere di restituire responsabilità e consapevolezza, non solo conoscenza tecnica. Un po’ tutti dobbiamo ritrovare un linguaggio comune che parta dal senso di responsabilità e dalla necessità di dare risposte a tutti quelli che ci chiamano e in questo caso ci sta chiamando l’universo”.
“Responsabilità” è un termine significativo anche rispetto alla declinazione più significativa che l’UCEI intende dare a questi incontri: quella di arricchire il dibattito intorno all’uguaglianza attraverso i valori propri dell’esperienza e della tradizione ebraica. Così Haim Baharier, psicoanalista e talmudista, collegato da remoto, ha reso immediato il senso della parola chiave di questo contesto ricordando che in ebraico responsabilità si dice achraiùt, che contiene l’etimo dell’‘altro’ e del ‘dopo’.
La parola “responsabilità” però compare quasi alla conclusione di un dibattito che ha già messo in campo contenuti pregnanti, stimolati dalla moderazione di Giovanni Levi, professore emerito di storia moderna all’Università Ca’ Foscari e consigliere della Comunità ebraica di Venezia (rappresentata tra il pubblico dal presidente Dario Calimani).
La partenza è stata segnata dal saluto di Antonella Magaraggia, presidente dell’Ateneo Veneto che ha rievocato la storia dell’Articolo 3 facendo riferimenti particolarmente interessanti al contributo delle cinque “madri costituenti” (in una assemblea di 75 membri). Ha ricordato il “di fatto” introdotto nel secondo comma da Teresa Mattei che estende l’impegno della Repubblica ad abbattere gli ostacoli all’uguaglianza, compresi quelli ideologici, e la precisazione “senza distinzioni di sesso”, voluta dalla senatrice Merlin. Parole che oggi suonano di grandissima attualità. “Sono certa – conclude la presidente Magaraggia – che se la Commissione dei 75 si fosse riunita oggi, il diritto a un ambiente sano sarebbe entrato palesemente nella nostra Costituzione come prerequisito dello sviluppo della persona umana di cui parla l’Articolo 3. Oggi questo tema è la seconda fonte di preoccupazione dei nostri ragazzi, dopo la ricerca del lavoro. Purtroppo, però, di ambiente non si parla sempre a proposito: oscilliamo tra una visione catastrofista e una negazionista, due atteggiamenti non scientifici che ci portano all’inazione. Cosa può fare la nostra Repubblica? Proporre azioni positive ed evitare comportamenti sbagliati. Ma occorre competenza, rara in un paese come il nostro dove la scienza non è tenuta in grande considerazione, e una visione di lunga durata che mal si concilia con i tempi della nostra politica. Eppure solo guardando al futuro saremmo in grado di capire i fenomeni che ci circondano e prevenirli”. Parole a cui sono seguite quelle di Davide Jona Falco, che ha portato il suo saluto in quanto assessore dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: “Sono orgoglioso di aprire questo incontro in un luogo che fa parte della mia giovinezza, dove una targa ricorda i soci espulsi dalle leggi razziali e che partecipa attivamente alle celebrazioni del Giorno della Memoria. La scelta di Venezia per parlare di ambiente anche dal punto di vista ebraico non è casuale, se non altro perché la città utilizza per difendersi dall’acqua alta un sistema chiamato MOSE”. L’assessore ha ricordato anche come la salvaguardia della natura sia un tema che l’ebraismo conosce da sempre, ben presente nelle scritture bibliche e nei commentari rabbinici e nelle feste. Da qui l’apporto a un dibattito che viene percepito come sempre più urgente, visto che l’Italia nel 2022 ha avviato una riforma costituzionale sul tema includendo nei principi dell’articolo 9 e dell’articolo 41 proprio l’attenzione alle future generazioni. “Le stesse che hanno portato in evidenza come i cambiamenti climatici non possono essere affrontati da tutti allo stesso modo”, rimarca Jona Falco. Anzi, “il cambiamento diventa paradigmatico delle vere differenze sociali e la domanda di questo incontro è se esiste un modo per avere una vera giustizia climatica”.
È proprio Laura Boella la prima a tracciare un quadro di quanto la giustizia climatica vada oltre i semplici provvedimenti tecnici: “Non possiamo più parlare solo in termini di informazioni numeri, statistiche: è necessario introdurre il tema della giustizia climatica per rendere davvero ugualitaria ogni iniziativa per contrastare il riscaldamento globale. Occorre occuparsi delle creature fragili, della discriminazione e delle diseguaglianze, che comprendono anche le informazioni sul riscaldamento globale a cui tutti non hanno lo stesso tipo di accesso. In occidente sappiamo ormai tutto su questo tema, anzi sappiamo così tanto che ci è difficile comprendere le necessità di chi invece il cambiamento climatico lo subisce”. Laura Boella descrive un sistema complesso, dove gli stessi sforzi per riparare i danni all’equilibrio del pianeta comportano rischi, come quelli legati all’uso dei materiali rari per le batterie o magari la penalizzazione di popolazioni che in un mondo Wilderness non potrebbero più sostentarsi. “Scompensi e disuguaglianze fanno parte degli effetti di questo mutamento radicale: non è solo il clima a cambiare, siamo in presenza di un grande sconvolgimento che comporta rischi. E questi rischi devono essere condivisi non solo attraverso politiche, ma anche attraverso un pensiero che sappia dosare colpe, responsabilità e mandare messaggi corretti”. Un effetto sul nostro pensiero è già percettibile: “la natura non è più un fondale della storia umana, gli esseri umani non possono più proclamarsi despoti del creato, ma devono riconoscere la loro relazione con un mondo che non è più da contemplare, misurare, o trasformare, ma è partner della storia umana”. Una visione allargata che il presidente Cicutto ha ampliato ulteriormente, portando l’esempio della Biennale come un luogo di incontro tra culture: “La coscienza di essere liberi di fare ciò che vogliamo sul nostro pianeta sta cadendo in pezzi. Non è un caso se nell’anno in cui sono arrivato a Venezia mi sono ritrovato davanti a una mostra di architettura che immaginava tutte le possibili convivenze. Credo che il curatore di allora Hashim Sarkis abbia voluto comunicare come sia necessario costruire una nuova presa di coscienza sulle conseguenze dei nostri comportamenti. La stessa curatrice della mostra di quest’anno, Lesley Lokko, che viene dal Ghana, afferma che la storia architettura allo stato attuale è incompleta, frutto della pigrizia dell’occidente nell’ascoltare quelle voci che noi stessi non consentivamo di farci sentire. Abbiamo sempre dato per scontato che quello che si faceva nei paesi occidentali fosse quello che era necessario e gli altri dovessero o fornirci delle materie prima o copiarci”.
È Haim Baharier a spostare l’accento in modo più marcato su un elemento necessario alla giustizia climatica. “I giovani sono coinvolti, certo, ma per il resto della società non sembra invece una priorità. Quindi il problema è trovare la motivazione perché la paura o la legge non sembrano spronarci abbastanza. Sarebbe più giusto parlare di ‘esigenza di giustizia climatica’: la giustizia non viene praticata se non c’è l’esigenza e l’esigenza non viene spiegata. Nel Talmud per commentare il diluvio esiste una parola ebraica che indica l’assoluta catastrofe etico – culturale dovuta a tre cause: la violenza sessuale, quella idolatrica e poi si parla di una terza causa ‘Gesel’ che si potrebbe tradurre nel “sottrarre alla vista”. Qualcuno dice che significa ‘stare sotto la soglia della punibilità’. Non basta tuttavia cercare di stare nella legalità o a un millesimo dalla legalità per operare il cambiamento, alla base ci devono essere ragioni etiche”. E cita l’esempio di Abramo e Isacco per raccontare di come anche la generosità necessiti sempre di un termine di paragone, una motivazione e magari anche una imperfezione attraverso cui prendere coscienza.
Se Giovanni Levi, prima di cominciare il secondo giro di interventi ci ricorda che, nella nostra società, le disuguaglianze crescono a dispetto dell’Articolo 3 che suggerisce di diminuirle, l’ultima parola di Baharier è un ironico invito all’ottimismo: “La cabala insegna che il Creatore ha provato a fare il l’universo 26 volte e alla 27 ha detto ‘speriamo che tenga’. Ecco noi siamo oggi nel periodo ‘speriamo che tenga’, e non bisognerebbe mai deludere gli artisti”.

Alberto Angelino

(Foto: Luca Zanon)