In viaggio nel Ghetto fluido

Nel 1555, annunciato dalla bolla pontificia “Cum nimis absurdum”, si istituiva a Roma il Ghetto. Quindici anni dopo la stessa sorte sarebbe toccata a Firenze, per iniziativa non del papa direttamente ma di Cosimo I de’ Medici: il primo esponente del ramo cadetto della famiglia, fondatore di una dinastia destinata a restare al comando della città e della Toscana fino ai primi decenni del Settecento. Una decisione finalizzata comunque a compiacere la Chiesa e la sua guida, che non era più Paolo IV, il promulgatore della bolla segregazionista, ma Pio V: riconoscente per la scelta di separare i suoi sudditi ebrei dal resto della società cristiana, imponendo una distinzione residenziale netta, gli avrebbe assegnato il titolo di granduca.
Quello fiorentino è un Ghetto di cui in genere poco si parla. Meno famoso e in apparenza meno vivace di tanti altri sul piano sia culturale che commerciale. Del tutto incomparabile, ad esempio, con realtà assurte a paradigma universale di resilienza e irradiazione di stimoli come quella veneziana (dove il Ghetto era stato fondato nel 1516). In realtà le cose non starebbero proprio così ed è assai più ciò che non è stato scritto e svelato finora rispetto a quanto già di pubblico dominio. Un vuoto che solo ricerche e studi appassionati stanno permettendo di colmare.
Ad illuminarci è in arrivo una mostra che si annuncia di straordinario interesse, nella cornice di Palazzo Pitti, con inaugurazione prevista per il 23 ottobre prossimo. Un impegno promosso dalle Gallerie degli Uffizi, che già nel 2019 dedicarono una grande mostra ai tessuti dell’Italia ebraica, e che vede tra i curatori Piergabriele Mancuso, ebraista veneziano, che da vari anni è impegnato a studiare gli articolati (e spesso contraddittori) rapporti tra i signori di Firenze e il microcosmo ebraico insediatosi in riva all’Arno dal Quattrocento. A partire proprio da quell’esperienza di segregazione, che seguiva di poco più di un secolo l’arrivo dei primi prestatori ebrei sull’onda del vento nuovo innescato dal primo Rinascimento. Gli anni in cui, sotto il segno del capostipite Cosimo il Vecchio, “Pater Patriae” e nonno del Magnifico Lorenzo, Firenze consoliderà la propria ascesa come faro della civiltà occidentale. Tra gli animatori del “The Medici Archive Project”, un archivio online in costante aggiornamento, Mancuso – che è affiancato nella cura di questa mostra da Alice Legé e Sefy Hendler – ha iniziato a studiare le carte a disposizione sul Ghetto dal 2017. Un lavoro ininterrotto che nella sua prima fase, durata all’incirca due anni e mezzo, ha avuto come primo obiettivo la raccolta di tutto il materiale esistente. Seguita poi dall’analisi, in modo analitico, delle molte migliaia di fogli scansionati con pazienza certosina.
Documenti da leggere e contestualizzare che hanno schiuso, letteralmente, un mondo. “In quanto bene immobile mediceo, il Ghetto ero uno spazio oggetto di rigorosa attenzione e valutazione. E quindi, grazie a quel che si è conservato, è stato possibile ricostruirlo fisicamente e demograficamente in modo esaustivo e a tratti soprendente. È il Ghetto più documentato che io conosca”, sottolinea Mancuso. Inserito nel cuore della città, nell’area oggi corrispondente all’incirca a piazza della Repubblica, stretto tra il cuore religioso di Firenze (il Duomo) e quello civile (Palazzo Vecchio), “era quello che oggi si direbbe un blocco, un grande condominio; abbastanza sovraffollato, ma non moltissimo”. Lo studio delle carte ha permesso di ricostruirne “prima il trend economico e poi la componente demografica”. Mentre una terza fase dello sforzo di Mancuso e della sua equipe è stata rivolta “alla ricostruzione virtuale in quanto spazio fisico”. Nel merito, anticipa, “abbiamo individuato le diverse aree, dove erano localizzate le sinagoghe, come si distribuivano le restanti attività”. Un Ghetto, afferma, “molto più ‘liquido’ di quello che si sia portati a pensare”.
Basti l’esempio del governo di Cosimo III, il penultimo granduca, figura decadente e passata alla storia per il suo bigottismo e oscurantismo. “A inizio Settecento – racconta Mancuso – il granduca ‘scopre’ che varie famiglie ebraiche vivono fuori dal Ghetto, dove in teoria dovrebbero stare. Una dinamica che inizia a prendere corpo già dalla seconda metà del Seicento, con nuclei familiari che non solo non abitano nel Ghetto, ma che hanno al loro servizio servitù cristiana. Ciò ci fa capire che il progetto di separazione, almeno dal punto di vista mediceo, fu in genere fallimentare. Ma anche come il potere politico fosse comunque propenso ad accettare delle ‘trasgressioni’ fin quando non si fossero rivelate clamorose o economicamente pesanti”.
Un modus operandi che è nella storia di questa famiglia, impostasi sulla scena in virtù delle sue capacità finanziarie e mercantili. Per questo, chiosa Mancuso, “spesso chiusero un occhio”. Una particolarità che risalterà nella mostra in preparazione, con un focus su alcune figure di grande fascino e rilievo. Una è il pittore Jona Ostiglio, che agì alla corte dei Medici e fu addirittura membro dell’Accademia delle Arti e del Disegno. È stato proprio Mancuso, in collaborazione con la storica dell’arte e funzionaria degli Uffizi Maria Sframeli, a svelarne l’esistenza lo scorso autunno. “È stata lei – spiega Mancuso – a indirizzarmi verso una serie di opere e documenti sconosciuti che attestano l’attività nella Firenze granducale del pittore ebreo Jona Ostiglio, al quale si fa brevemente riferimento per la prima volta in un articolo del 1907 a firma del rabbino, biblista e orientalista Umberto Cassuto”.
Altro personaggio di cui si parlerà è Moise Vita Cafsuto, che effettuò importanti missioni diplomatiche per conto dei Medici e si trovò coinvolto nel tentativo di vendere uno dei più grossi diamanti mai visti in Europa. Di questa eccezionale figura, a cavallo tra Tradizione ebraica e primo illuminismo europeo, scrive Asher Salah nel libro di recente uscita “Il mondo fuori dal ghetto. I viaggi di Moise Vita Cafsuto, gioielliere dei Medici”. La mostra si caratterizzerà per quatto macro-temi: pre-ghetto, verso il ghetto, dentro il ghetto, dopo il ghetto. Quest’ultima sezione “molto riassuntiva, ma comunque ricca di stimoli”, anche per via della trasformazione di cui si darà conto: quella cioè da ghetto ebraico a ghetto urbano. Nel segno della progressiva emancipazione infatti le vecchie restrizioni cadranno e, a gli ebrei, garanti comunque di un assetto sociale ordinato, si sostituiranno tra quelle strade anguste “proletariato, sottoproletariato, prostituzione e degrado”. Fin quando, nella seconda parte dell’Ottocento, si darà il via alle demolizioni. Un progetto di “risanamento” urbano celebrato alla sommità dell’arco di Piazza della Repubblica, dove dal 1895 si legge: “L’antico centro della città da secolare squallore a vita nuova restituito”. Non tutti apprezzarono la distruzione di quel piccolo mondo, che aveva comunque ispirato le opere di alcuni talenti dell’arte pittorica. “Piangi per le porcherie che vengon giù?” fu chiesto a Telemaco Signorini, in lacrime davanti ai colpi di piccone. “No – la sua risposta – piango per quelle che vengono su”.

(Nell’immagine: Piazza della Repubblica, sorta nell’area dove un tempo si trovava il Ghetto)