Rocky Marciano,
sulle tracce del mito:
un viaggio tra Storia e Memoria

L’unico campione del mondo dei pesi massimi a ritirarsi ancora imbattuto. Una leggenda senza tempo la cui storia continua a stupire ed emozionare. Nel centenario dalla nascita di Rocky Marciano, Dario Ricci – giornalista di Radio 24 e conduttore del programma di successo Olympia, pluripremiato agli Aips Sport Media Awards – si è messo sulle tracce del mito e ne ha ricavato un libro prezioso edito da lab DFG. Un viaggio intorno a cosa questa figura ha rappresentato ben oltre il ring e i successi della sua straordinaria carriera: 49 incontri vinti su 49, ben 43 per ko. E quindi anche attorno al suo essere stato un ponte, con la sua storia fuori dal comune, “fra America e Italia, fra passato, presente e futuro del nostro sport e della nostra storia”.
Il libro è un potente affresco e anche un’inchiesta, a più voci, che testimonia come “decine, centinaia di destini, parabole, storie di uomini e donne” abbiano finito per intrecciarci alla carriera e all’esistenza di Rocky Marciano (all’anagrafe Rocco Marchegiano). Spiega l’autore, all’inizio di questo viaggio, che “bisogna attraversarli in un senso e nell’altro, questi ponti, e scandagliarli in ogni direzione, questi fondali e questi cieli per far riemergerne una, di queste centinaia di vite, parabole e storie, che racchiude in sé l’essenza di un secolo, il Ventesimo, con tutta la spaventevole possanza dei suoi più atroci simboli”.
La scelta di Ricci, che è da anni l’animatore di un festival dedicato a Marciano nel comune abruzzese di Ripa Teatina da cui proveniva il padre, è quella del 18esimo incontro di questa ininterrotta striscia vincente. Quello che lo vide opposto – il 18 luglio 1949, nella cornice del Rhode Island Auditorium di Providence – ad Harry Haft. Il suo vero nome era in realtà Hertzko. Harry sarebbe arrivato in seguito, dopo l’emigrazione negli Usa da un’Europa ancora in macerie dopo la devastazione bellica e morale. Nato in Polonia nel 1925, nella cittadina di Belchatow, era ebreo. E in quanto ebreo era stato deportato nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove all’arrivo gli era stato tatuato sul braccio il numero 144738 e dove, per sopravvivere, fu costretto a combattere per il sollazzo degli aguzzini. Quello sul ring di Providence fu il suo ultimo incontro. Di fronte a lui, chiosa Ricci, “un Marciano decisamente lanciato verso gli obiettivi e i risultati che effettivamente poi ne scandiranno la carriera e che sul quadrato di Providence, che nel frattempo è divenuto suo abituale luogo d’esibizione, comincia a starci decisamente stretto”. Sarà, come previsto, un trionfo. Nella sua biografia lo sfidante denuncerà in seguito le pressioni ricevute da alcuni mafiosi negli spogliatoi, per favorire la vittoria di Marciano. Non improbabile, osserva Ricci, visto il clima che regnava intorno al pugilato americano allora e gli interessi di gangster come Frankie Carbo e Blinky Palermo. Altrettanto probabile però che The Brockton Blockbuster, cioè Marciano, “sarebbe comunque riuscito a venire a capo del proprio avversario, di cui ignorava la parabola umana”.
È un capitolo tra i tanti che apre prospettive meno note sulla carriera del mito e che è anche l’occasione per ricordare un altro grande pugile ebreo, il romano Leone Efrati. Nel dicembre del ’38, nel suo massimo momento di gloria, aveva incrociato i guantoni con lo statunitense Leo Rodak per il titolo mondiale dei pesi piuma. Da Chicago era poi tornato nell’Italia delle leggi razziste, rinunciando a numerose offerte, per stare al fianco della moglie e del figlioletto. Come Haft, sarebbe stato deportato ad Auschwitz e costretto anch’egli a combattere. Lui però, a differenza di Haft, non avrebbe fatto ritorno. La sua fine è stata raccontata da Alberto Sed in una struggente testimonianza e così la riporta Ricci: “I tedeschi davano a chi combatteva un premio, spesso un pezzo di pane. Efrati si faceva onore, ma poi un giorno tutto finì. C’era anche suo fratello al campo. E lui tornando un giorno nel block seppe che era stato picchiato a sangue da uno dei kapò. ‘Chi è stato, chi te l’ha date?’. Si rifece e loro, dopo aver preso tutte ’ste botte avvertirono un soldato tedesco. Qualche ora dopo, lo tramortirono, lo ridussero a un moribondo”. Fu così, spiegava Sed, “che Lelletto finì nei forni crematori.”