Quattro bambini
nella Roma del ’43
Anteprima emozionante al Giffoni Film Festival per l’esordio di Claudio Bisio alla regia. Inaspettato, un po’ fiabesco, forse a tratti ingenuo, il film si incentra sul rapporto tra quattro bambini a Roma nel 1943.
Tra bombardamenti e tedeschi che prendono il controllo della città, i quattro trovano una loro dimensione, che pur con qualche iniziale perplessità riesce ad integrare anche un’orfana, nonostante sia femmina, e persino un ebreo. Perché in fondo “non è colpa sua”, come si difenderà: “mamma e papà pure loro sono ebrei, ma non è nemmeno colpa loro!, perché anche i nonni erano tutti ebrei … certo però, che sfiga!”, commenta un altro del gruppetto.
Stretto il patto di amicizia, la guerra diventa gioco quotidiano: fionde per abbattere gli aerei nemici, bastoni e pezzi raccattati nei cortili per fare fucili e baionette, la piccola orfana farà la crocerossina, occupandosi dei feriti, della cucina da campo, della lavanderia, per sostenere lo sforzo bellico degli amici.
Intanto il papà di Italo, il più arditamente fascista dei quattro, gerarca che vanta la conoscenza diretta con Mussolini, accoglie con qualche moina e un po’ di fastidio il nuovo comandante tedesco, offrendogli senza esitare l’aiuto necessario a identificare gli ebrei romani, tutti già schedati: per una volta anche gli italiani sono all’altezza della “efficienza germanica”.
Rimane sullo sfondo, narrata con le immagini che scorrono sul negozio vuoto dell’amico scomparso all’improvviso, la razzia dell’ottobre ’43 a Roma: i cassetti ancora pieni dei meravigliosi bottoni e nastri di raso, oggetto del desiderio dei bimbi, sono ora abbandonati, le luci che entrano dalle fessure disegnano geometrie bianche e nere, evocando una partenza improvvisa.
Difficile capire, per chi conosce un po’ la storia e le tante storie di vite e famiglie travolte da quell’ottobre, se queste immagini, e le indicazioni che la storia fornisce fin qui, siano sufficienti allo spettatore per inquadrare uno dei momenti più drammatici e bui della storia del fascismo, ma certamente spingono ad interrogarsi sul destino di quel ragazzino, di quella famiglia, che a parte una stella gialla sui vestiti sembrava così felice, così “normale”.
I bambini, si sa, troppe domande non se ne fanno: manca un amico, bisogna andare a cercarlo. Una volta partiti loro, partirà alla loro ricerca un’altra improbabile coppia: la suora dell’orfanotrofio e l’eroe di guerra, fratello del comandante del gruppetto, fascistissimo. Suora e militare da una parte, terzetto di bambini dall’altra, le vicende si dipanano simbolicamente lungo i binari del treno che ha lasciato Tiburtina, diretto a nord: un treno di cui si parla, di cui si sa, ma che si vedrà solo alla fine, dopo le diverse peripezie che cambieranno forse la vita, o almeno il modo di vedere le cose, anche ai protagonisti.
Ma i buoni sentimenti e le migliori intenzioni non possono fermare i treni, come racconta la voce di uno dei protagonisti alla fine, e la conclusione in qualche modo raccoglie e dà senso a tutta l’avventura. L’ultima volta che siamo stati bambini è stato prima che quel treno partisse, prima di guardare in faccia l’abisso.
Inaspettato per alcuni aspetti, il film inevitabilmente paga qualche tributo ai precedenti, da Jo Jo Rabbit a Train de vie, a La vita è bella, ma riesce a trovare una sua dimensione nella costruzione del rapporto tra diversi che si accettano, inizialmente quasi per forza o malvolentieri, e si scoprono attraversati da emozioni e vissuti simili: la delusione o l’incomprensione del mondo dei grandi, il desiderio di affermarsi, la voglia di essere amati e riconosciuti al di là delle etichette imposte – orfana, ebreo, fascista, partigiano. Il treno che parte porta via per sempre l’illusione che tutto possa andare bene, e la scena sembra fermarsi negli occhi e nel cuore dello spettatore, come il cappottino rosso di Schindler’s List.
Bisio trova un buon equilibrio tra leggerezza e tragicità, riuscendo a sfiorare gli eventi senza nominarli, e portando lo spettatore fino all’inaspettato, ma anche inevitabile, finale.
Elettra Rinaldi