Cento anni di Hakoah,
il calcio ebraico
al massimo livello

C’era un tempo in cui le squadre inglesi di calcio incontravano di rado le avversarie straniere. E se lo facevano si trattava di un gesto di altruismo. Una gentile concessione a compagini che, in virtù della loro inesperienza, in un mondo del pallone pervaso ancora da un pionierismo che faceva rima il più delle volte con dilettantismo, mai avrebbero potuto impensierire nell’arco dei novanta minuti gli inventori del “football”.
Convinzioni granitiche infrante, un secolo fa, da un sodalizio che veniva da Vienna e rispondeva al nome ebraico di Hakoah (“La forza”). Le sconfitte internazionali di club della Football League First Division, l’antenata della Premier League fondata il 17 aprile del 1888 dal consorzio di 12 società, si contavano fino ad allora sulle dita di una mano. Eventi rari. Anzi, rarissimi. Mai era successo, comunque, che un team inglese perdesse sul proprio terreno di gioco.
La Storia fu riscritta il 3 settembre del 1923, nello stadio londinese del West Ham. L’Hakoah, realtà di riferimento della borghesia ebraica viennese che pare annoverasse tra i suoi sostenitori un certo Franz Kafka, giocava con una stella di Davide all’altezza del cuore e si rifaceva ai principi enunciati da Max Nordau nel suo Muskeljudentum: “Il sionismo restituisce nuova vita all’ebraismo. Moralmente attraverso il rinnovamento dell’ideale popolare, corporalmente attraverso lo sviluppo dell’educazione fisica. Che ci dia nuovamente l’ebraismo dei muscoli che è andato perso”.
Quel giorno “l’ebraismo dei muscoli” agognato da Nordau diede la miglior prova di sé, facendo sì che l’Hakoah non solo vincesse ma addirittura umiliasse il più quotato West Ham con un cinque a zero finale giustificato solo in parte dalla presenza, tra i padroni di casa, di numerose riserve. “Siete la miglior squadra che abbia mai incontrato. E, credetemi, ho visto centinaia di partite di calcio”, avrebbe commentato a fine gara il capitano degli Hammers.
L’Hakoah era stata fondata nel 1909 dal cabarettista Fritz Löhner-Beda e dal dentista Ignaz Hermann Körner e già nel 1922 aveva sfiorato un titolo nazionale, duellando fino all’ultimo con il Wiener Sport-Club, poi vincitore con due punti di vantaggio. Il titolo d’Austria l’avrebbe comunque conquistato tre anni dopo, entrando (dopo l’impresa di Londra) in un’altra storia ancora. Quella del cosiddetto “calcio danubiano”, che era allora un’eccellenza europea di assoluto rispetto, la miglior risposta continentale allo strapotere d’Oltremanica. E che anche per questo faceva impazzire, per l’invidia, i vertici sempre più fascistizzati (ma non ancora professionalizzati) dell’Italia dello sport.
Un capitolo da almanacchi del calcio che vide tra i suoi protagonisti non pochi ebrei, soprattutto nella categoria degli allenatori e maestri di tattica che avrebbero forgiato, con il loro impegno nei club, l’ossatura della Nazionale italiana più vincente di sempre (due titoli mondiali e un titolo olimpico in appena quattro anni, in un percorso che iniziò in Italia nel ’34 e finì in Francia nel ’38, passando dalla Berlino del ’36 dei cinque cerchi e della svastica). Nomi diventati universali come gli ungheresi Arpad Weisz ed Erno Erbstein, colpiti entrambi nel ’38 dalla persecuzione antisemita dei diritti e in seguito da quella, sua conseguenza diretta, delle vite. Il primo, plurivincitore di scudetti con Bologna e Inter, sarebbe stato arrestato in Olanda (dove non aveva smesso di allenare) e deportato senza ritorno in un lager. Il secondo, tornato nel suo paese dopo un avventuroso viaggio, si sarebbe salvato soltanto grazie all’intervento del “Giusto tra le Nazioni” Raoul Wallenberg.
La Shoah avrebbe travolto anche vari campioni di quella leggendaria Hakoah, celebrata a metà Anni Venti in una tournée americana che avrebbe fatto registrare il tutto esaurito in ogni tappa. Uno degli eroi di quella squadra, dissolta dopo l’Anschluss e ricostituita soltanto in anni recenti (anche se a un livello molto più basso rispetto al suo passato di gloria) era il portiere Alexander Fabian. Nella gara decisiva per la conquista dello scudetto, Fabian ebbe la sventura di lussarsi una spalla e, non potendo restare nel suo ruolo a difesa della porta, fu spostato dai pali all’attacco. Pochi minuti dopo, proprio lui, l’infortunato Fabian, firmò il goal della vittoria. Altro nome che contribuì a demolire “il mito dell’inferiorità fisica degli ebrei”, come scrisse autorevole stampa austriaca esaltandone le imprese, fu quello dell’ungherese Bela Guttmann. Colonna dell’Hakoah che macinava successi, era uno dei giocatori di maggior abilità e carisma, ma soprattutto diventerà un allenatore di fama mondiale.
Sotto la guida di Guttmann – che lavorò a lungo anche in Italia, dal Padova alla Triestina, dal Milan al Vicenza – il Benfica del mito Eusebio vinse due Coppe dei Campioni. Le prime e uniche della sua storia. Al momento di lasciare l’incarico il tecnico magiaro, in frizione con l’ambiente societario, lanciò un anatema divenuto celebre: il Benfica non avrebbe più sollevato una coppa europea nei successivi 100 anni. Ne sono passati più di 60. E, per il momento, la previsione è stata corretta.

(Foto: www.hakoah.at)