FIRENZE – A Palazzo Pitti la mostra su ebrei, i Medici e il Ghetto. Parla Schmidt
Per ottenere l’anelata “promozione” Cosimo I de’ Medici (1519-1574) ricorse a ogni mezzo. Prima consegnò il suo amico Pietro Carnesecchi al Sant’Uffizio, che non ebbe pietà. Quindi, ulteriore condizione richiestagli da papa Pio V, rinchiuse gli ebrei fiorentini in un ghetto. L’area scelta fu quella oggi corrispondente a piazza della Repubblica, dove il “serraglio” entrò in funzione a partire dal 1570. Soddisfatto per la sua diligenza, il papa lo elevò dallo stato di duca a quello di granduca.
Il ghetto fiorentino fu un luogo di costrizione come tanti altri in Italia e in Europa. Ma al suo interno “si svolsero comunque delle vicende interessanti e raccontarle è anche un atto d’amore verso la cultura ebraica, che è un tassello irrinunciabile della nostra città”, racconta a Pagine Ebraiche il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt, introducendo “Gli ebrei, i Medici e il Ghetto di Firenze”. La mostra a cura di Piergabriele Mancuso, Alice Legé e Sefy Hendler sarà inaugurata domani mattina a Palazzo Pitti. Un viaggio nel tempo per capire “quali furono le premesse del ghetto, come fu strutturato e cosa accadde poi in quell’area” quando il quartiere, non più “serraglio” come era stato per secoli, divenne una calamita per degrado e malaffare e fu poi demolito a fine Ottocento.
Un ghetto con divieti rigorosi ma con una sua relativa “fluidità” anche nei momenti più declinanti dell’epoca medicea, quando il più sfrenato bigottismo si impose tra le stanze del governo di Firenze e Toscana. Schmidt cita la storia da poco ricostruita del pittore ebreo Jona Ostiglio, che fu attivo a corte a fine Seicento ed entrò anche a far parte della prestigiosa Accademia delle Arti e del Disegno. Tavole e tele, le sue, “intrise di atmosfera caravaggesca, nature morte composte come sembianze umane, anomali granchi con occhi a nocciola, paesaggi campestri toscani”: così Mancuso e la funzionaria degli Uffizi Maria Sframeli nell’annunciare, lo scorso autunno, la riscoperta di questo protagonista dimenticato dell’arte. “Il tema della parziale ‘fluidità’ dei ghetti italiani non è d’altronde nuovo, sempre più spesso gli studiosi se ne stanno occupando e anche al Meis se ne è parlato con la mostra ‘Oltre il ghetto. Dentro & Fuori’”, ricorda il direttore degli Uffizi. “È un filone molto interessante. Anche perché dal Ghetto fiorentino uscirono personaggi notevoli, non soltanto Ostiglio”. È il caso ad esempio di Moisé Vita Cafsuto, che a inizio Settecento fu gioielliere dei Medici e che nel loro nome svolse alcune missioni diplomatiche all’estero. Cafsuto avrebbe poi incontrato personalità del calibro di Federico II di Prussia, Augusto III re di Polonia, l’astronomo Edmond Halley il compositore Carl Heinrich Graun, restituendocene una descrizione vivida in un diario che lo storico dell’ebraismo italiano Asher Salah ha fatto diventare di recente un libro: “Il mondo fuori dal ghetto. I viaggi di Moise Vita Cafsuto, gioielliere dei Medici (ed. Paideia)”. Era già noto, afferma Schmidt, “che a Firenze ci fosse una ‘tolleranza’ superiore rispetto agli altri Stati del primo periodo moderno”. Alcuni di questi elementi di apertura “esistevano già sotto gli ultimi Medici: Firenze era anche allora una città che premiava l’arte sopra ogni altra considerazione”.
La mostra si basa su uno studio approfondito dei documenti, partendo dagli archivi. “In quanto bene immobile mediceo, il Ghetto era oggetto di rigorosa attenzione e valutazione. E quindi, grazie a quel che si è conservato, è stato possibile ricostruirlo in modo esaustivo e a tratti sorprendente”, ha concluso Mancuso: “È il Ghetto più documentato che io conosca”.