Le dissidenti iraniane
in piazza per Israele

Da Milano a Firenze, in alcune città italiane le bandiere d’Israele e Iran sono sventolate assieme, brandite da alcuni attivisti anti-ayatollah che hanno espresso la loro solidarietà allo Stato ebraico attaccato da Hamas e richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sulle responsabilità del clero sciita al potere. Rayhane Tabrizi, nata nel 1979 a Teheran, è una di loro. “Quello tra l’Iran e il popolo ebraico è un legame d’amicizia millenario, che risale ai tempi di Ciro il Grande. Esserci era necessario, per pronunciare parole di vicinanza in un momento doloroso. Il regime è un nemico spietato, un nemico comune” spiega Rayhane, che vive a Milano dal 2008. La sua storia, insieme a quella di altre dissidenti, è al centro di un documentario in fase di produzione a cura del regista Ruggero Gabbai. Un modo per sostenere il loro coraggio. Rayhane ne ha da vendere. “Ho lavorato per nove anni come assistente di volo per la compagnia di bandiera dell’Iran. Da Beirut a Damasco, con i miei occhi ho testimoniato il trasporto di personaggi poco raccomandabili e lo svuotamento dalla stiva di grandi quantità di armi. Tutto ciò avveniva con regolarità, in particolare a Beirut”, racconta a Pagine Ebraiche. Quella stessa Beirut che, attraverso Hezbollah, potrebbe ora aprire un nuovo fronte del conflitto.
Rayhane ha partecipato al presidio di vicinanza a Israele svoltosi in piazza Castello, pochi giorni dopo la carneficina attuata da Hamas. In quello stesso luogo, nel settembre del 2022, centinaia di persone avevano protestato contro l’assassinio di Mahsa Amini al grido di “Donna, vita, libertà”. Un anno dopo, il regime è ancora in sella. Ma la battaglia continua. “Il nostro è uno slogan che conquista la sensibilità di tante persone. In Italia c’è molta attenzione alle nostre istanze”, sostiene Rayhane, presidente dell’associazione Maanà, nata per veicolare quel messaggio. “Anche perché”, aggiunge, “si tratta di una rivoluzione pacifica: non chiediamo né armi, né finanziamenti, ma un’azione chiara e ferma per bloccare il regime da un punto di vista sia economico che politico”. In questo senso “promuoviamo numerosi eventi, dibattiti e incontri, per parlare non soltanto di condizione femminile, ma anche di negazione dei diritti in modo più esteso e inoltre di arte, musica e cucina espressioni di una cultura plurimillenaria oltraggiata dagli ayatollah”. Guardando all’Iran di oggi, l’obiettivo non sono “le riforme”, una non soluzione, “ma la fine del regime” con tutti i suoi apparati di potere. L’attivista si definisce una persona “di idee liberali, non voglio quindi la monarchia nel nostro futuro, anche se ho apprezzato il fatto che Reza Pahlavi, il figlio dell’ultimo scià, abbia visitato di recente Israele”.
Tabrizi è tra le attiviste più esposte. “In Iran non posso tornare, almeno fin quando ci sarà questo regime. Ho fatto dichiarazioni pesanti, con accuse ben precise, e ne conosco il prezzo. Ma pur avendo la famiglia lì non potevo sottrarmi”, precisa la donna. Per il momento “nessuna minaccia personale mi ha raggiunto qui in Italia, anche se la Digos ha comunque predisposto un rafforzamento della vigilanza nei confronti di noi dissidenti”. In marzo, accompagnata proprio da Gabbai, Rayhane ha inaugurato l’anno accademico dell’Università Statale di Milano con una prolusione sull’Iran che lotta e resiste. Un intervento dedicato “all’inestimabile valore della quotidiana normalità, della libertà dei gesti più banali, comune e scontata per il mondo occidentale, ma tragicamente negata alle giovani e ai giovani iraniani”.

(Nell’immagine di Lorenzo Ceva Valla: Rayhane Tabrizi)