DIALOGO – Il testo dell’Ari per il dialogo con la Chiesa Cattolica 2024

“Anche quest’anno, in vista della Giornata per il dialogo con la Chiesa Cattolica, è stata condivisa la scelta di un passo biblico sul quale sviluppare l’approfondimento; in questa occasione, il testo al quale dedichiamo la nostra attenzione è il noto passo del profeta Ezechiele (37, 1-14) conosciuto come “visione delle ossa disseccate”, uno dei testi profetici più ricchi di pathos e particolarmente significativo per rappresentare in modo emblematico sia il pensiero ebraico riguardo all’attesa della rinascita nazionale e spirituale del popolo d’Israele, che non è venuta meno malgrado le sventure e le sofferenze dell’esilio, sia la fede nella resurrezione dei morti, nel tempo della redenzione messianica.
Per la comprensione di questo passo è necessario tenere presente che Ezechiele, dopo aver lungamente e invano messo in guardia sulla catastrofe incombente a causa dei peccati del popolo, una volta che la distruzione si abbatte su Gerusalemme, rivolge agli esuli discorsi profetici di consolazione e conforto, rassicurandoli sulla possibilità di redenzione, sia come ritorno in terra d’Israele sia attraverso la purificazione spirituale di fronte a D.O, sia con la ricostruzione del Santuario e la ripresa del servizio sacro. Nel contesto di questi discorsi di Ezechiele che recano la parola consolatrice del Signore al popolo prostrato e annichilito, che ha ormai perso ogni speranza, si colloca la straordinaria visione delle ossa rinsecchite che tornano a rivivere per volontà del Signore, attraverso la parola profetica; si tratta di un vaticino variamente interpretato dai Maestri, in un passo del Talmud -TB Sanhedrin 92b – si confrontano al riguardo diversi Maestri, alcuni ritengono che il testo ci riporti un evento di resurrezione dei morti di cui il profeta è stato effettivamente testimone, altri invece opinano trattarsi di una visione profetica da interpretarsi tutta come allegoria della rinascita del popolo d’Israele.
Il profeta narra di essere stato trasportato dallo spirito divino in una valle, già ricordata (cfr. Ezechiele 3, 22) come luogo dove gli si era manifestata la gloria dell’Eterno; il posto gli appare subito tutto pieno di ossa, una cupa visione che assume un carattere ancor più marcato per il fatto che il Signore fa compiere al profeta un percorso tutt’attorno alla valle, nel corso del quale Ezechiele si rende pienamente conto dell’enorme quantità di ossa che ivi giacevano e di come esse fossero completamente rinsecchite, segno quindi che erano appartenute ad esseri umani morti da tempo. Il Signore si rivolge quindi al profeta chiedendogli: “Figlio d’uomo, potranno rivivere queste ossa?” Ezechiele risponde con un’esclamazione con cui riconosce che solo D.O può saperlo, Lui solo potrebbe restituire vita alle ossa disseccate. Ci possiamo chiedere il senso di questa interrogazione che il Signore rivolge ad Ezechiele; sembra potersi leggere il desiderio da parte del Signore che il profeta, come poi effettivamente appare nello svolgersi dell’evento, non sia semplicemente spettatore e nemmeno solo esecutore degli ordini divini ma in qualche modo partecipe di questo ritorno alla vita; in questo senso si esprime il commento di Yosef ben Shim’on Kara – esegeta della Bibbia vissuto in Francia tra 11° e il 12° secolo -che arriva a cogliere nelle successive parole del Signore al profeta – “Profetizza circa queste ossa” – una sorta di ammaestramento che l’Eterno intende dare al profeta: “Io ti insegnerò -spiega Yosef Kara – come potranno rivivere”. Il senso di questo coinvolgimento del profeta va probabilmente inteso come legato al significato allegorico della visione delle ossa disseccate che ritornano a vivere, cioè come espressione della rinascita del popolo, il profeta può dunque rappresentare una delle guide spirituali del popolo, cui spetta il compito di restituire fiducia nell’aiuto del Signore e speranza di futuro alla nazione prostrata e abbattuta. Il Signore conferisce al profeta l’ordine di annunciare alle ossa disseccate che Egli avrebbe loro restituito uno spirito di vita, procedendo con le azioni necessarie a riportarle alla condizione di esseri umani viventi, ponendo quindi i nervi, ricollocando la carne e ricoprendola con la pelle; il profeta adempie all’ordine divino e improvvisamente si ode un grande frastuono prodotto dalle ossa che si ricongiungono, ciascuna con quella ad essa corrispondente. Nella prospettiva allegorica della rinascita nazionale questo frastuono delle ossa, secondo un’altra interpretazione il termine rà’ash del testo potrebbe qui alludere addirittura a un terremoto, viene interpretato, (in un recente saggio a cura di Rav Yaakov Hayat) come espressione degli sconvolgimenti che si manifestano tra le nazioni del mondo in relazione alla rinascita nazionale del popolo ebraico; dalla stessa fonte esegetica troviamo anche un’altra significativa nota lessicale, il movimento delle ossa che si ricongiungono è espresso con la forma “’ètzem le’atzmò” che, oltre al significato principale già ricordato, quello di indicare il perfetto incastro di ciascun membro l’uno con l’altro, può anche indicare – letteralmente – che ciascun osso si riunì “a se stesso”, espressione che verrebbe allora a rappresentare il concetto per cui nel momento in cui il popolo ebraico vive la propria rinascita, ciascun ebreo ritrova anche se stesso, cioè riconosce la propria personale identità nel legame con il proprio popolo. Le ossa riprendono dunque vitalità secondo la parola del profeta, tuttavia Ezechiele constata che ancora manca in esse il rùach, lo spirito, qui ad indicare la vera e propria piena essenza vitale che distingue l’uomo da ogni altra creatura, questa penetra nei corpi solo dopo un’ulteriore parola del profeta e infine con l’intervento diretto del Signore ricordato a conclusione di questo passo. Quelle ossa riprendono quindi vita e sembianza umane formando un’immensa schiera. A quel punto il Signore spiega al profeta il senso dell’evento a cui ha assistito, esso rappresenta il popolo d’Israele, ormai abbattuto nella disperazione – “Le nostre ossa sono inaridite – così essi dicono – la nostra speranza è perduta, ormai siamo finiti” – che viene riportato dal Signore alla pienezza di vita, alla speranza e alla terra d’Israele.
Il senso di questa visione è stato in passato variamente interpretato, a seconda del fatto che la descrizione di Ezechiele, i sepolcri da cui scaturiscono i defunti, venisse intesa essenzialmente come un’allegoria della
redenzione dalla misera condizione del popolo nella dispersione tra le nazioni del mondo, o invece come annuncio della vera e propria attesa della resurrezione dei morti nel tempo messianico, accolta come principio di fede dell’ebraismo ed espressa esplicitamente nelle tre preghiere che l’ebreo è chiamato a recitare quotidianamente. In epoca moderna, con l’avvio del ritorno degli ebrei in terra d’Israele, questa pagina del profeta Ezechiele è stata letta in una prospettiva molto concreta di richiamo alla rinascita nazionale, un’eco di questo approccio lo troviamo nelle parole del testo poetico, successivamente divenuto l’inno nazionale dello Stato d’Israele, composto nel 1877 da Naftali Herz Imber, che, con chiaro riferimento alle parole di Ezechiele dice, nella versione originale, “Non è ancora perduta la nostra speranza di tornare alla terra dei nostri padri”. Dopo la tragedia della Shoà e in seguito alla costituzione dello Stato d’Israele indipendente, questo passo profetico di Ezechiele si è mostrato di un’attualità drammatica, non era più necessario ricercare alcun senso allegorico alla descrizione delle ossa rinsecchite, la cui visione era apparsa agli occhi del mondo in tutta la sua sconvolgente realtà, mentre le schiere dei risorti, descritti dal profeta, richiamano tutti i superstiti della Shoà che hanno cercato una nuova vita nel rinato stato ebraico. Una chiave di lettura di significativa attualità è stata sviluppata sulla scia dell’insegnamento di Rav Avraham Izhak Kohen Kook, teorico del pensiero che identifica la rinascita nazionale del sionismo, il ritorno del popolo ebraico in terra d’Israele, come espressione di un primo segno di redenzione avviato dal Signore, in forma ancora assolutamente acerba ma destinata a svilupparsi nel tempo; in questa prospettiva, nelle diverse fasi del ritorno alla vita delle ossa rinsecchite, descritte da Ezechiele, in particolare i due momenti in cui si mostra il rùach lo spirito divino, prima come semplice movimento dei corpi che riprendono soffio vitale, poi come pienezza dell’identità di esseri umani nel pensiero e nell’intelletto rivolto al bene, si può scorgere un’allusione al fatto che il risorgimento nazionale ebraico si sia a lungo sviluppato come movimento sostanzialmente privo di connotazione religiosa, nell’attesa di trovare un’espressione spirituale più profonda, in grado di coinvolgere pienamente tutto il popolo con autentico sentimento di fede nel Signore. Un’attesa quanto mai attuale anche nell’immediato presente”.
Rav Alfonso Arbib
Presidente Assemblea Rabbinica