ISRAELE – Moris il romano
fra gli sfollati del sud

L’atmosfera nell’hotel di Shefayim è di profonda tristezza. Qui, nel centro d’Israele, tra Tel Aviv e Netanya, sono ospitate le famiglie del kibbutz Kfar Aza, tra i più colpiti dall’attacco di Hamas del 7 ottobre. Dei circa mille residenti del kibbutz, 58 sono stati uccisi, 17 sono stati rapiti e sono ostaggio nella Striscia di Gaza. “Le persone, soprattutto gli adulti, parlano poco e noi non chiediamo. Siamo lì per aiutare e fornire assistenza”, racconta a Pagine Ebraiche Moris Habib, ventidue anni. A metà ottobre Moris è tornato a vestire la divisa del Comando del Fronte interno, sette mesi dopo aver finito la leva obbligatoria come paramedico. Era in viaggio in Sri Lanka il 7 ottobre quando è stato richiamato nella riserva. Nelle ultime settimane la sua unità si è occupata dei civili, di riorganizzare la vita degli sfollati dalle zone coinvolte nella guerra. “Nei primi giorni si trattava di gestire i funerali per le vittime, quasi dieci al giorno solo per Kfar Aza. Abbiamo messo in piedi le tende per la shiva (i sette giorni di lutto previsti dalla tradizione ebraica), procurato il cibo e tutto il resto”, racconta Moris. Appena entrato nel hotel di Shefayim ricorda di essere rimasto colpito dal silenzio. “Nessuno parlava, nessuno diceva buongiorno”. E spiega come vi sia una differenza evidente tra gli sfollati. “Chi è stato evacuato da Ashkelon per esempio riesce a scherzare e parla con orgoglio ‘dei nostri soldati’”. L’atmosfera tra i residenti dei kibbutz del confine con la Striscia, come Kfar Aza, è invece diversa. “Loro vedono la nostra divisa e ci guardano con delusione. Non lo dicono apertamente, ma si chiedono perché l’esercito non li abbia protetti. Anche chiedere ‘come stai?’ non ha più una risposta normale. Non c’è più ‘bene, tu?’. Rispondono solo ‘sono vivo o viva’”.
La famiglia di Habib vive a Roma e lui è un “chaial boded”, un soldato solitario, come viene definito in ebraico. Un soldato che non ha i parenti in Israele. Per svolgere il suo servizio, spiega, deve evitare di farsi coinvolgere emotivamente. “Noi dobbiamo essere operativi. Sia per il bene dei civili che aiutiamo, sia perché potremmo essere richiamati a combattere e dobbiamo preservare il nostro morale”. Anche per questo ha avuto indicazione di non fare domande ai sopravvissuti. “Noi non chiediamo, anche per non rievocare il trauma, ma se loro vogliono raccontare siamo a disposizione o indichiamo chi può dare loro ascolto”.
Il lavoro della sua unità è legato alla logistica. In questi ultimi giorni alla predisposizione di scuole per i ragazzi sfollati: dall’organizzare la struttura, a fornire banchi, cancelleria, tutto quello che serve. Molto del tempo libero è dedicato a giocare con i bambini. “I più piccoli si aprono di più, ma non li forziamo mai”. Sono spesso i giochi ad essere rivelatori del loro stato d’animo. “Una bambina di quattro anni mi ha detto: ‘voglio costruire una casa’. Ha preso una piccola porta da calcio, l’ha messa per terra e ha indicato: ‘questa è la mia casa. Questa è la cucina, questo è il salotto’. Poi mi ha fatto entrare, intimandomi, con una voce completamente diversa, di stare zitto. Le ho chiesto perché. ‘Perché ci sono i mostri fuori di casa’. Poi ha iniziato a dire ‘il bambino, il bambino piange!’. Non ho fatto domande, ma l’ho rassicurata dicendo ‘ci sono io, non ci sono i mostri’”.

(Nell’immagine, due soldati giocano con un bambino a Shefaym. Foto @Noam_Yona)