Economia di guerra, economia in guerra
La guerra non è mai solo un evento di natura bellica, coinvolgendo semmai le società con le loro economie. Tanto più sul lungo periodo. La mobilitazione di persone e materiali ha attraversato l’intero Israele, dal 7 ottobre in poi, e continua a tutt’oggi. Gli effetti sono destinati a durare nel tempo a venire. La chiamata alle armi di un grande numero di riservisti, circa 360 mila, insieme all’intero indotto che è stato chiamato in causa, riguarda tra l’8 e il 10 per cento dell’intera forza lavoro. Rispetto ai diversi settori economici nazionali, quello tecnologico e dell’high tech (attualmente concorre a circa il diciotto per cento del prodotto interno lordo) sta contribuendo con un numero significativo di richiamati, essendo composto da non pochi giovani. Più in generale, tra il 15 e il 25 per cento degli occupati è in qualche modo impegnato a fronteggiare gli effetti della guerra: oltre ai riservisti, si tratta dei componenti delle famiglie che debbono occuparsi delle mansioni, domestiche e non, abbandonate dai richiamati, così come degli sfollati dai luoghi più prossimi ai combattimenti, soprattutto personale di imprese che hanno temporaneamente sospeso la loro attività o l’hanno ricollocata in altre aree territoriali. Gli effetti sull’industria del turismo, in sé del tutto prevedibili, sono comunque ancora da misurare e quantificare concretamente. L’ingresso quotidiano di lavoratori palestinesi, perlopiù addetti nel settore edile (20 da Gaza e 140 mila dalla Cisgiordania), si è immediatamente interrotto. Così come ad essere sospesi in un limbo sono quelle decine di migliaia di immigrati asiatici, addetti ai lavori agricoli e di servizio alla persona. Secondo stime recenti, Israele starebbe perdendo circa 2,5 miliardi di dollari al mese. Per tutto il periodo d’ottobre i consumi privati sono scesi di un terzo, ripetendo un trend che si era già verificato con l’inizio della pandemia nel 2020. La metà delle aziende del settore tecnologico lamenta il rallentamento, se non l’annullamento, di accordi di investimento. Le prospettive non sono incoraggianti: il costo economico del conflitto (secondo Bank Hapoalim) si aggirerebbe sul punto e mezzo di Pil mentre l’economia, nel suo insieme, potrebbe soffrire una contrazione dell’undici per cento rispetto al medesimo trimestre (ottobre-dicembre) del 2022. Malgrado i robusti interventi governativi, la condizione di disagio non è destinata a risolversi facilmente. Israele ha tuttavia dalla sua non solo l’economia più solida del Medio Oriente ma anche una delle più adattive e performative di tutto l’Occidente. Il rapporto tra debito e Pil è del sessanta per cento e nell’anno trascorso ha segnato un surplus di bilancio dello 0,6 per cento. La banca centrale israeliana ha accumulato 200 miliardi di euro di riserve in valuta straniera. Storicamente, lo Stato ebraico ha sempre superato le crisi causate dalle guerre con un’economia più forte. Come è stato tuttavia notato, «la sfida è senza precedenti. L’economia di Israele non è mai stata sviluppata, liberale e globale come negli ultimi vent’anni; un’era segnata da un’indiscussa supremazia militare e dalla normalizzazione delle relazioni, formali o informali, anche con paesi ostili o diffidenti». Da questo quadro, di chiaroscuri, si dovrà ripartire a breve.
Claudio Vercelli