LA RIFLESSIONE – Rav Alberto Somekh: Tempo di guerra, spirito di sacrificio
“Quando scoppia una grande guerra nel mondo la potenza del Mashiach si ridesta” (cfr. Bereshit Rabbà 42, 4), scrive Rav Kook citando un gioco di parole da Shir ha-Shirim (2, 12): “è giunto il tempo del canto (dell’usignolo)“, dove la parola “canto” (zamìr) può anche essere tradotta “potatura” e allude alla fine dei tiranni: “i malvagi vengono soppressi dal mondo, il mondo ritrova vigore e ‘la voce della tortora (simbolo di libertà) risuona nella nostra terra’. I giusti che vengono uccisi… partecipano del principio per cui ‘la morte del giusto espia’ (Mo’ed Qatan 28a)“. Poco oltre riecheggia Nietzsche quando afferma che “la soppressione morale mediante la quale la civiltà secolare domina largamente sui popoli ha provocato in essi ansia e molti tratti negativi, malanni e rancori che covano nel profondo del loro animo. Questi disagi si manifestano attraverso le guerre, sanguinose e crudeli, in sintonia con la natura tuttora non rifinita (dell’uomo)” (Orot ha-Milchamah 1-5).
Commenta Rav Sacks (“Tradition in an untraditional age”, p. 26) che per Rav Kook la qedushah pervade tutto il creato. “La tragedia dell’umana esistenza è che gli individui non pensano se stessi nei termini del posto che occupano nel tutto, ma intendono invece il tutto come una proiezione di se stessi. Perciò assumono un frammento dell’insieme ed entrano in conflitto con altri che prendono un altro frammento dell’insieme”. Tanto nella materia che nello spirito ciascuno vede solo l’aspetto dell’esistenza che più gli aggrada, mentre tutto ciò che egli non comprende ritiene che debba essere epurato dal mondo in quanto distruttivo e disturbante. Dicasi lo stesso per le discipline secolari. La Torah è la dimensione mistica che consente la riconciliazione dei conflitti e nella quale si rivela il posto di ciascun elemento nello schema totale. D. è chiamato nella Tefillah del mattino: “Signore delle guerre, seminatore di giustizia”. “Ironicamente – osserva Rav Betzalel Naor annotando la sua versione inglese di “Orot” – i semi della rettitudine sono piantati nel campo di battaglia”.
Rav Kook scrive proprio negli anni della Grande Guerra, allorché ci si illudeva che fosse la fine di tutte le guerre. Ma fu anche la sconfitta inflitta dagli inglesi ai turchi a rendere possibile la Dichiarazione Balfour. E lo Stato d’Israele è stato in buona misura il prodotto del secondo conflitto mondiale. Nella parashah di questa settimana leggiamo che Ya’aqov si preparò a un’eventuale guerra con Esaù: divise in due l’accampamento (Bereshit 32, 8) disponendo le donne e i bambini tutti da una parte, al di là del fiume, e personalmente si unì a loro per assumerne la difesa (32, 23-24; Abrabanel). Ma “dentro di sé covava molta paura e angustia”: Paura di essere ucciso – commenta Rashì – e angustia all’idea di dover uccidere. Quando poi incontrò Esaù in uno spirito apparentemente pacifico Ya’aqov gli cedette il passo (33, 14) e il Midrash annota che “inviò in dono a Esaù la porpora” (Bereshit Rabbà 75, 4), simbolo dei senatori romani (e del cardinalato oggi?). Scrive Rav Kook: “Non è il caso che Ya’aqov si dedichi alla politica fintanto che questa gronda di sangue, fintanto che essa richiede una buona dose di malvagità. Noi abbiamo ricevuto solo la base appena sufficiente per fondare un popolo, ma una volta che il tronco è stato piantato siamo stati deposti, dispersi fra le nazioni, seminati nelle profondità della terra, finché ‘giungerà il tempo del canto (dell’usignolo, o della “potatura” dei tiranni) e la voce della tortora risuonerà nella nostra terra’“.
Dalla filosofia alla Halakhah. In una corrispondenza con Rav Shlomo Zalman Pines, Rav Kook riprende il commento di Rashì alla Parashat Wayishlach allorché scrive che in guerra “siamo esposti al pericolo di uccidere e di essere uccisi in accordo con la natura del mondo (ke-minhagò shel ’olam)“. La guerra è dunque giustificabile sul piano giuridico come parte dell’umana natura. Per secoli anche la pena capitale ha trovato analoga giustificazione a deroga del divieto di uccidere: il comandamento positivo “estirperai il male da dentro di te” (Devarim 13, 6; 21, 21; 22, 22) è percepito dalla Torah come indipendente da quello di preservare vite umane. Lo stesso dicasi a proposito dell’invio di truppe al fronte, “che tale dispensa rientri nello speciale ‘diritto dei re’ (mishpat ha-melekh) o in qualsivoglia altra misura eccezionale”. Ma attenzione, avverte contemporaneamente Rav Kook, proprio perché la guerra è una situazione particolare non autorizza in alcun modo la violazione di qualsiasi comandamento pur di ottenere la vittoria a ogni costo.
Per evidenti ragioni storiche l’argomento non è quasi mai affrontato nelle fonti halakhiche più antiche. Il primo a scriverne in tempi moderni è forse il Netziv (acronimo di R. Naftalì Zvi Hertz Yehudah Berlin), capo della Yeshivah di Volozhin (1817-1893) nel suo commento alla Torah He’ameq Davar a proposito del versetto in cui D. proibisce l’omicidio a Noach e i suoi figli dopo il diluvio: “e dalla mano dell’uomo, dalla mano dell’uomo suo fratello chiederò conto dell’anima dell’uomo” (Bereshit 9, 5). Il Netziv evince da qui che l’omicidio è punibile solo in un regime di fratellanza umana, cioè in pace: non in guerra, “perché così è stato fondato il mondo (kakh nossad ha-‘olam). Un re israelitico può anche dichiarare una guerra non comandata (milchemet reshut), benché un certo numero di ebrei vi troverà la morte”.
Neppure i mali peggiori, peraltro, vengono per nuocere. In una serie di scritti R. Eli’ezer Waldenberg (1915-2006), eminente Decisore dell’ultima generazione, si sofferma a sua volta sui due principi per cui 1) la guerra è un fenomeno universale e naturale e 2) entro certi limiti il “codice halakhico di guerra” può ammettere eccezioni rispetto a quello ordinario, “di pace”. In due suoi Responsi degli anni 1976-77 (Tzitz Eli’ezer vol. 12, n. 57 e vol. 13, n. 100), analizzati da Robert Eisen (“Rabbi Eliezer Yehuda Waldenberg on the Justification of War”, in The Torah u-Madda Journal, New York, 17, 2016-17, p. 46-63), affronta la domanda se un soldato in guerra ha il permesso, se non l’obbligo, di salvare la vita di un compagno ferito sul campo a costo di mettersi in pericolo a sua volta. Egli scrive che anche sotto questo profilo la guerra si presenta differente da altre situazioni. In tempo di pace non c’è l’obbligo di mettersi a repentaglio per salvare un’altra persona e se quest’ultima è a sua volta in una condizione di rischio non accertato (sefeq sakkanah) e si può presumere che sopravviva comunque non c’è neppure il permesso di farlo. Lo si impara dal celebre caso talmudico in cui due uomini si trovano nel deserto ma uno solo possiede acqua appena sufficiente a salvare se stesso. La Halakhah segue l’opinione di R. ‘Aqivà per cui “la tua vita ha la precedenza” (chayyekha qodemin): è infatti scritto nella Torah “e la vita di tuo fratello è con te” (Wayqrà 25, 36), ma non “più di te” (Bavà Metzi’à 62a). In guerra, peraltro, è diverso: se si richiede ai soldati di mettere a rischio la vita andando a combattere per la propria nazione, confidando nell’Altissimo, devono essere pronti al pericolo anche per salvare i commilitoni feriti (cfr. Maimonide, Hilkhot Melakhim 7, 15).
La guerra è deprecabile: ma una volta che non si possa evitare, deve insegnarci lo spirito di sacrificio. E se questo vale per chi è al fronte, tanto più ciò trova applicazione nei confronti delle retrovie. Tutti noi che da lontano osserviamo le operazioni militari in corso, dobbiamo essere pronti a sostenere in ogni modo i combattenti e il paese per cui rischiano la vita ogni giorno che passa.
Rav Alberto Moshe Somekh