GENOVA – Il premio Primo Levi ad Agnese Moro
Assael spiega il rapporto fra Teshuvà e giustizia riparativa

Lo scrittore austriaco Jean Améry definì Primo Levi “il perdonatore”. Entrambi erano sopravvissuti ai lager nazisti, ma ognuno dei due aveva la propria visione del dopo Shoah e del rapporto persecutore-perseguitato. “Levi replicò ad Améry, spiegando: non ho mai perdonato nessuno, solo non sono capace di restituire il colpo. Questa per me è la cifra per capire la giustizia riparativa: una giustizia dove c’è lo spazio per accusare, ma non per restituire il colpo. Dove non si dimentica, dove non si assottigliano le differenze tra chi ha agito e chi ha subito, ma è uno spazio, come ci dice anche l’ebraismo, in cui chiamare a rispondere davanti al volto dell’altro”, spiega a Pagine Ebraiche, Claudia Mazzuccato, docente dell’Università Cattolica di Milano. Un esempio applicato delle parole dello scrittore torinese, rileva ancora Mazzuccato, è il percorso di Agnese Moro, una delle figlie di Aldo Moro. Da qui anche il significato del conferimento ieri a Genova del Premio Primo Levi proprio alla terzogenita dello statista rapito e assassinato 45 anni fa dalle Brigate Rosse.
Tra le prime a sostenere il dialogo e l’incontro tra i responsabili della lotta armata e i familiari delle loro vittime, Agnese Moro ha spiegato il senso del suo impegno. “La giustizia riparativa si occupa dell’irreparabile e delle sue scorie radioattive. Se non curiamo queste scorie, diventano la fonte emotiva di sentimenti feroci e di altre migliaia di conflitti”. In questo senso, aggiunge Mazzuccatto, “mentre la restituzione del colpo genera un meccanismo difensivistico e potenzialmente autogiustificatorio, la giustizia riparativa guarda avanti, non si chiude in un passato di colpa e negatività, ma apre a un futuro, in cui si può e si deve cambiare”.
Seppur non vi sia un termine in ebraico per la giustizia riparativa, i suoi principi sono ben presenti nell’ebraismo, osserva lo studioso Davide Assael. Dal palco di Genova ha spiegato questi collegamenti. “Ho proposto la Teshuvà così come è stata codificata da Maimonide”, spiega Assael a Pagine Ebraiche. “Parliamo dell’assunzione della responsabilità di chi ha compiuto una lacerazione, a prescindere dalle sue motivazioni. Primo atto è la verbalizzazione: lo dici a te stesso. Poi è necessario l’incontro pubblico con chi ha subito la lacerazione. Non si tratta di due parti in contrapposizione, ma di un percorso, condiviso attraverso l’incontro, per elaborare l’evento traumatico attraverso la parola: dopo averlo fatto con te stesso, lo fai con l’altro e le parti guardano l’una il volto dell’altra”. È un percorso molto simile a quello della giustizia riparativa, sottolinea Assael, citando esempi come il Sud Africa, il Ruanda, così come di Agnese Moro. “Nella Teshuvà si tiene saldo il principio della responsabilità della lacerazione. E il paradigma di questo principio è la vicenda di Caino e Abele. Qui si rompe la dicotomia classica del colpevole e della vittima, parlando non solo delle responsabilità di Caino, ma anche di quelle di Abele”.

(Nell’immagine, il sindaco di Genova, Marco Bucci, e il presidente del Centro Culturale Primo Levi, Alberto Rizzerio, conferiscono il premio Primo Levi ad Agnese Moro)