NATURA – La quercia di Moré
dalla magia alla scienza

“Abramo…uscì da Haran (Mesopotamia). Percorse il paese fino al luogo di Scehem (oggi Nablus) ed al querceto di Moré (Elon Moré).” Il racconto biblico prosegue, concentrandosi su Abramo e sua moglie Sara, mentre è interessante prendere anche in considerazione l’elemento arboreo che il racconto biblico cita e subito dopo abbandona. Raramente nella Torah i riferimenti alla vegetazione sono dettagliati; lo sono di più quelli sulle persone. In questo caso, però, il riferimento vegetale ha anche un significato spirituale. Il testo ebraico scrive testualmente “la quercia di Moré”, che solitamente non viene tradotto, ma il significato letterale è la “quercia del maestro”. Cosa significa? Perché un nome così strano? Cosa c’entra l’albero con il maestro? Secondo alcuni interpreti, riportati nella traduzione italiana di Rav Dario Disegni, la quercia di questo versetto della Torah corrisponderebbe a quella citata nei Giudici (9, 37), all’ombra della quale esperti di magia predicevano l’avvenire. Idolatria pura, ma occorreva attendere ancora parecchi secoli prima di ricevere la Torah per il tramite di Moshé.
Vale dunque la pena fare qualche osservazione lessicale, indice però anche della sostanza del discorso. Anzitutto è corretto chiedersi perché le pratiche magiche venissero esercitate all’ombra di una quercia Non c’è una risposta sicura, ma sembra logico pensare che, in mancanza dell’edificio di un “tempio”, la potenza e la maestosità della vegetazione della quercia, il più grande albero di quell’area, disponessero l’animo a un rispetto reverenziale per la Natura e di riflesso per Colui che questa natura aveva creato. Non c’è ancora una “Legge” codificata e l’esistenza e la presenza del Signore sono sentimenti presenti nell’animo soltanto di alcuni individui, particolarmente aperti verso il soprannaturale. Jean Paquerau, botanico e vivaista, nota che in ebraico l’albero di quercia, Alon, e l’appellativo comune del Signore, Elohim (non è il Nome, che non deve essere mai pronunciato), hanno la stessa radice che si estende anche alla lingua araba che invoca il Signore con il nome di Allah.
Le dimensioni e il portamento di questo albero, che può raggiungere 40-45 metri altezza, sono tali da destare ammirazione e stupore soprattutto tra pastori nomadi, abituati a cercare le fonti del nutrimento per le greggi e gli armenti soltanto per terra. I frutti (le ghiande) hanno una forma originale e oggi sono utilizzate soltanto per l’alimentazione del bestiame, mentre i rami di più anni o addirittura il tronco, in caso di abbattimento, forniscono un apprezzato materiale di rilevante robustezza che viene evocata anche nel nome “robur” che caratterizza la specie nella denominazione scientifica assegnata da Linneo, fin dal 1753.
Il rimarchevole sviluppo di questo albero è legato alla capacità di raggiungere ed esplorare strati profondi del terreno dove, se non la falda, almeno importanti quantità di umidità sono presenti, favorendo così il raggiungimento delle sue rilevanti dimensioni. Gli estratti, ricavati dalla corteccia e dalle gemme, sono astringenti e vaso-costrittori, e sono utilizzabili sia per curare la pelle che come lenitivi per il cavo orale (sciacqui e gargarismi). Oggi l’impiego dei frutti come alimento per gli uomini è pressoché scomparso, mentre vengono utilizzati per gli animali.

Roberto Jona, agronomo