LA RIFLESSIONE – Rav Somekh: Dalla guerra alla consolazione
Quest’anno il digiuno del 10 Tevet cade di venerdì: compiremo la Mitzwah di assaggiare i cibi per Shabbat in punta di lingua, senza inghiottire. Non basta: potremo recitare il Qiddush e mangiare solo una volta uscite le stelle, almeno un’ora dopo l’inizio del giorno festivo. Con la sola eccezione di Yom Kippur è questo l’unico digiuno a non subire mai aggiustamenti di calendario in concomitanza con lo Shabbat: persino Tish’ah be-Av all’occorrenza viene rinviato. Abudarham, commentatore medioevale del Siddur, ne fornisce la ragione. ’Assarah be-Tevet è stato istituito per commemorare la data in cui i Babilonesi posero l’assedio a Yerushalayim nel 588 a. E.V. In quell’occasione il Profeta Yechezqel (24, 1-2) ricevette da H. l’invito a scriversi “l’essenza di questo giorno” (‘etzem ha-yom ha-zzeh). È la stessa espressione già adoperata nella Torah per il digiuno di Yom Kippur (Wayqrà 23, 29): indica una scadenza non procrastinabile! Sembra che il richiamo all’eccezionalità del caso sia stato redatto in polemica con la setta dei Caraiti che ritenevano che il digiuno di Shabbat fosse sempre permesso, in contrasto con la Halakhah rabbanita (cfr. D. Sperber, “Minhaghè Israel”, vol.VII, p. 160 sgg.).
Esegeti successivi si interrogano sul significato concettuale dell’equivalenza con Yom Kippur: perché il 10 Tevet comporta un rigore maggiore rispetto agli altri digiuni del “ciclo babilonese”? Alcuni lo attribuiscono al fatto che il nostro è l’unico digiuno di cui il Tanakh indica la data con esattezza: di tutti gli altri conosciamo dai Profeti solo il mese, mentre il giorno è stato stabilito dai Maestri successivamente (Minchat Chinnukh, Prec. 301). In una delle sue Derashot, R. Yonatan Eibeschuetz (Ya’arot Devash 1, 2) fornisce un’altra motivazione. Argomenta che “tutti gli inizi sono difficili”: il nostro digiuno marca l’assedio, dunque l’inizio del “ciclo” ed è il momento che richiede maggior attenzione.
Possiamo forse tentare una razionalizzazione ancora più profonda. L’affinità con Yom Kippur può essere vista nel fatto che entrambi i digiuni, in realtà, segnano il nostro impegno in una guerra. Come affrontiamo i nostri nemici esterni, così dobbiamo tenere sotto scacco il nostro nemico interno per eccellenza: lo Yetzer ha-Ra’. Cosa fare a questo punto con lo Shabbat? Se possibile, evitiamo di fissare un digiuno in anticipo rispetto alla sua data: non c’è fretta alcuna di subire una punizione (aqdume pur’anuta la meqadminan)! Non resta che ipotizzare un posticipo: ma si può rinviare una guerra difensiva? No. La guerra richiede di essere intrapresa nel momento stesso in cui si presenta, senza dilazioni. Che sia la guerra interiore contro gli attacchi dell’istinto il giorno di Kippur, o quella di difesa da un nemico reale il 10 Tevet.
Nel novembre 1975 si riunì a Parigi il 16° Colloquio degli Intellettuali ebrei francofoni, organizzato a cura della sezione francese del Congresso Mondiale Ebraico. Il tema indicato per la sessione, a due anni dal conflitto di Yom Kippur e a 30 dalla liberazione di Auschwitz, era la guerra (cfr. AA.VV., “La conscience juive face à la guerre”, Presses Universitaires de France, Parigi, 1976). La lectio talmudica di apertura fu affidata, come d’abitudine, a Emmanuel Levinas, il quale scelse di commentare Bavà Qammà 60ab, un passo che verte sui danni causati dal fuoco. “Chi provochi un incendio – introduce la Mishnah – deve risarcire, perché è scritto nella Torah: ‘Se esce un fuoco e trova spine, per cui nel frattempo è stato divorato un cumulo di grano, la messe o il campo (altrui in genere), l’autore dell’incendio deve pagare’” (Shemot 22, 6). La discussione che segue nel Talmud prende in considerazione, accanto all’interpretazione giuridica del passo, quella metaforica: contiene un’allusione alla guerra. Struttura originale – osserva Levinas – di un brano che passa dalla Halakhah alla Aggadah e viceversa.
“Il versetto comincia con una fatalità (“se esce un fuoco…“) e termina con una responsabilità (“l’autore… deve pagare”) per insegnare che il danno provocato dal fuoco è paragonabile a quello causato dallo scoccare di una freccia”. Sfugge al controllo dei colpevoli, ma questi rimangono tali e devono pagare. Come se il fuoco, al pari della freccia, fosse parte di loro. Di più: si presuppone un’attitudine distruttiva in ambo i casi. Il cumulo di grano divorato dal fuoco, afferma il Talmud, simboleggia i Giusti, che in guerra soccombono per primi. Per quale ragione, dal momento che sono privi di colpe? Perché sia loro risparmiato di assistere alla punizione dei malvagi. Magra consolazione – osserva il filosofo: la sofferenza resta e non elimina la malvagità dal mondo. Quanto meno i Giusti sono tenuti distinti dai malvagi: “giustizia punita, ma con giustizia”. È l’inferno di Auschwitz che testimonia un altro assurdo: l’assenza di un confine netto fra pace e guerra. Appello all’infinita responsabilità dell’uomo.
Dobbiamo avere un rifugio. La Terra d’Israele – argomenta Levinas – è letteralmente una “strada senza uscita”, non può essere abbandonata. Parafrasando un altro versetto citato nel Talmud: sebbene “all’interno delle (nostre) stanze regni il terrore” sarà sempre preferibile rimanervi dal momento che “fuori infuria la spada” (cfr. Devarim 32, 25). La Patria ci difende da guai ben peggiori nella Diaspora, nonostante la disperazione e lo scoramento che ora proviamo. Un’analisi premonitrice. E citando una profezia si conclude il brano talmudico. È scritto: “Sarò per essa (Yerushalaim) un muro di fuoco intorno e di gloria al suo interno” (Zekharyah 2, 9). Commentano i Maestri che D. deve osservare la Halakhah per primo. “La regola è che l’autore dell’incendio deve pagare? Ebbene Io ho distrutto la città con il fuoco e con il fuoco la ricostruirò“. Lo stesso strumento della distruzione diverrà strumento riparatore. Preghiamo che alle milchamot (“guerre”) succedano presto le nechamot (“consolazioni”). Che il digiuno sia lieve per tutti!
Rav Alberto Moshe Somekh