L’OPINIONE – Alberto Heimler: Il pregiudizio si sconfigge informando

Quando ero bambino i semafori non erano automatici ma erano azionati da un vigile che a suo piacimento faceva scattare il rosso. Quando questo avveniva proprio mentre la nostra macchina si avvicinava mio padre commentava: “Ma che antisemita è quel vigile!” Era una battuta, ma rispecchiava una prassi comune, quella di voler catalogare le persone.
Non dovremmo farlo. La facilità con cui noi attribuiamo etichette, peraltro uno delle più insidiose forme di lashon harah (lingua malvagia), genera implicitamente una divisione per bande nella nostra società che conduce all’eliminazione del dialogo e della comprensione reciproca. Se diciamo che il governo italiano è “fascista”, perché non è favorevole alla procreazione eterologa, chiudiamo ogni forma di dialogo. Analogamente, se sosteniamo che il governo è “razzista” perché vuole mantenere più omogenea la popolazione italiana, smettiamo di capire le ragioni vere che giustificano quelle posizioni, magari poi queste ragioni non sono affatto “razziste” o “fasciste”. Insomma, le etichette creano delle categorie rigide e bloccano le possibilità di comunicazione.
La guerra iniziata da Hamas il 7 ottobre e la reazione ampiamente prevista da parte di Israele ha suscitato tante reazioni negative, principalmente a sinistra e soprattutto tra i giovani. Molti le hanno bollate come forme di antisemitismo, ma non è proprio così. L’antisemita è infatti colui che odia gli ebrei senza una ragione specifica, una sorta di odio primordiale, analogo a quello di Amalek che attaccò il popolo d’Israele in fuga dall’Egitto semplicemente per il gusto di farlo. La Torà ci dice che ogni generazione ebraica ha il suo Amalek. L’odio di Amalek e dei suoi epigoni è talmente fondamentale che non è possibile placarlo. Non ci sono compromessi possibili. In qualche modo Hamas, per le sue posizioni e per le sue azioni, per lo meno per quelle finora manifestate, è l’Amalek della nostra generazione. Con gli antisemiti il dialogo è impossibile.
Ma l’opinione pubblica che critica Israele non è necessariamente seguace di Hamas. Le critiche a Israele nascono da un insieme diffuso di sensazioni e di percezioni che non sono esattamente “antisemite”. La prima è che secondo molti Israele non sarebbe uno Stato legittimo, ma come le potenze coloniali del passato occuperebbe una terra non sua e opprimerebbe il popolo che in questa terra viveva. E questo è semplicemente assunto, non frutto di un’analisi storica e, soprattutto, non limitato ai territori occupati nel 1967. La seconda è che la lotta dei palestinesi sarebbe una lotta per sconfiggere la potenza coloniale che li opprimerebbe, Israele appunto, non per creare il loro Stato. La simpatia di buona parte dell’opinione pubblica nei confronti dei palestinesi, anche di coloro che usano l’arma del terrore, nasce da questo miscuglio di terzomondismo, buonismo a senso unico e desiderio di avere un’opinione senza la fatica di crearsene una.
Molti non sanno che Israele è stata la patria agognata dal popolo ebraico da oltre 3.000 anni, una patria nella quale una comunità ebraica è sempre risieduta, anche se piccola. Inoltre, che l’immigrazione in Israele non è poi così recente, ma che è iniziata sia pure con numeri inizialmente piccoli fin dai primi decenni dell’800. Infine, che una parte della popolazione ebraica di Israele è costituita dai discendenti di ebrei che, sopravvissuti all’olocausto nazista, non sapevano dove andare e un’altra parte da ebrei che vivevano da secoli nei paesi arabi, cacciati da un giorno all’altro nel 1967. Da questo miscuglio sono nati gli israeliani di oggi. Infine, molti non sanno che gli ebrei hanno costituito il loro Stato comprando le terre dagli arabi e che la proclamazione dello Stato d’Israele è stata preceduta da una risoluzione dell’Onu che la consentiva. Non c’è niente di illegittimo quindi. E fin dall’inizio Israele è riuscita a integrare la minoranza araba, non solo rappresentata da partiti politici e ministri, ma lo stato di diritto israeliano consente a tutti i cittadini di poter accedere a posizioni importanti nell’amministrazione e un arabo-israeliano, George Deek, è l’ambasciatore di Israele in Azerbaijan.
Per quanto riguarda poi il rapporto con i suoi vicini, Israele ha sempre dovuto difendersi dai loro attacchi, innanzitutto nel 1948 quando gli arabi non hanno riconosciuto la spartizione stabilita dall’Onu (e l’Onu non è corsa a difendere Israele sotto attacco né ha cacciato chi non rispettava le sue risoluzioni), poi nel 1956, nel 1967 e nel 1973. Nei decenni successivi ci sono stati il terrorismo, solo marginalmente placato dalla costruzione del muro, e i missili giornalieri da Gaza. Infine, la strage del 7 ottobre ha provocato la guerra di queste settimane. Nel frattempo, molti si dimenticano che i palestinesi avrebbero potuto avere uno Stato da decenni, ma non hanno voluto o saputo cogliere le opportunità loro offerte.
Non è questa la sede per raccontare nei dettagli la storia di Israele, anche naturalmente degli errori commessi. Vorrei però concludere ricordando che abbiamo davanti un compito molto importante: informare correttamente l’opinione pubblica. È compito di tutti. Della nostra classe politica, dei giornalisti, dell’ambasciata d’Israele, forse troppo silenziosa su questi aspetti, degli insegnanti. Non dobbiamo permettere alla cattiva informazione di vincere. Un primo passo da parte nostra è riconoscere che le critiche a Israele anche quelle di questi giorni e anche se sono aspre non sono dovute all’antisemitismo. Solo così possiamo continuare un dialogo. E poi dovremmo andare nelle scuole non solo a parlare dell’Olocausto, ma anche a raccontare la storia di Israele.

Alberto Heimler, economista