7 OTTOBRE – Trauma collettivo e individuale: a colloquio con due psicoanalisti junghiani

Moshe Alon e Lidar Shani, psicoanalisti e psicologi junghiani, risiedono in Israele e hanno vissuto le conseguenze del massacro del 7 ottobre assistendo gli sfollati di Ashkelon trasferiti a Eilat per evitare i bombardamenti di Hamas. All’indomani del massacro li ha intervistati il collega David Gerbi.

Quali e attività aiutano a diminuire gli effetti del trauma?
“Il lavoro che facciamo è simile a un lavoro di pronto soccorso. Questo vuol dire che non ci occupiamo di curare il trauma a lungo termine ma piuttosto di evitare le conseguenze più gravi per i traumatizzati, incluso il personale di soccorso. Non si tratta di curare il trauma ma far sì che non peggiori, lavorando sugli effetti più acuti, come la rabbia repressa, che vengono accumulati nel corpo. Diamo molta importanza al pianto, e alla possibilità di sfogarsi in modo da evitare che le lacrime si congelino internamente. Le persone che hanno vissuto il trauma in prima persona possono essere soggette a stati isterici e noi legittimiamo le loro emozioni e facilitiamo la possibilità di poter esprimere liberamente tutto ciò che emerge. Il nostro approccio considera fondamentale trattare il trauma in contemporanea al trauma stesso, e insistiamo nel ribadire che le reazioni di pianto, rabbia e isteria sono reazioni normali e non patologiche. Non bisogna fare confusione tra i sintomi del trauma post traumatico (PTSD), è il trauma stesso”.

Cosa significa questo approccio?
“Se, ad esempio, qualcuno ci dice che non riesce a dormire, noi rispondiamo che è assolutamente normale, e che la mancanza di sonno è direttamente collegata all’esperienza traumatica. Cerchiamo quindi di trovare un modo per trasformare la difficoltà del dormire in qualcosa che abbia un valore positivo, secondo quello che in psicologia si chiama “reframing”. Diciamo ad esempio: “Visto che non puoi dormire, magari puoi aiutare la tua famiglia, sorvegliandoli mentre dormono”. È importante sottolineare che bisogna occuparsi di questi effetti proprio quando succedono perché se il trauma non viene raccontato subito e condiviso, l’ansia e la paura s’insinuano nel profondo. È necessario dare spazio e legittimare le emozioni, cercando anche di dare un senso a ciò che è successo, chiarendo cioè che l’esperienza vissuta è veramente spaventosa”.

Potete fare degli esempi?
“Una coppia con tre figli e una bambina con problemi particolari, è successo di rimanere nascosti per ore, ore in cui il padre ha dovuto tenere la bocca della bambina tappata per evitare di essere scoperti dai terroristi. Questo ha traumatizzato ulteriormente la bambina, che ora non mangia e vede il padre come una minaccia. La famiglia si chiede cosa sia successo alla bambina. In questo caso lavoriamo in particolare con l’arte terapia che consente ai bambini di esprimere quello che vivono internamente senza nessun tipo di censura. Se la persona che ha subito il trauma è isolata le cose sono più difficili. In questi casi prendiamo esempio dal rituale del lutto nell’ebraismo. Andiamo a trovare la persona a casa e, stando in silenzio, mostriamo la nostra solidarietà e vicinanza, dando la possibilità alla persona di elaborare il lutto in presenza di altri che fungono da contenitore. Mostriamo alla persona in lutto tutta la nostra comprensione e la consoliamo.
Il concetto di base è quello di aiutare le persone ad esternare le proprie emozioni affinché non esplodano all’interno. Si tratta proprio di un processo iniziale di evacuazione, un processo che porta ad una trasformazione. Lasciamo che le persone ripetano più volte la stessa storia perché hanno bisogno di consumarla. In questo modo tentiamo non solo di ricomporre la cesura tra il passato e il futuro ma, affrontando il trauma nel presente, cerchiamo di integrarlo nel ritmo della vita quotidiana. In tal modo si ricrea una continuità tra passato, presente e futuro, evitando la paralisi tipica del trauma.

E come si tratta il dolore collettivo?
“Un trauma collettivo credo si affronti più facilmente in contesti di tipo collettivo. Ad esempio, lo possiamo elaborare all’interno di una comunità, oppure all’interno del Kibbutz, perché in questi contesti le persone vengono sostenute dalla solidarietà e compassione del gruppo a cui appartengono. Senza l’aiuto della comunità il rischio è che i sintomi post traumatici si sviluppino in maniera più marcata. Quando Rabin è stato assassinato. Le persone sono uscite di casa e si sono radunate in piazza proprio per condividere con altri questo grande momento di dolore. C’è bisogno di condivisione: condividere la sofferenza fa parte della soluzione. Tutti sappiamo che prima della guerra Israele era divisa politicamente. C’era una cospicua polarizzazione d’idee. Molti si lamentavano degli ebrei ortodossi che non si arruolano nell’esercito. Ma dopo la tragedia gli ortodossi hanno fatto richiesta di arruolarsi in massa, cosa mai successa prima nella storia di Israele. Questo dimostra l’importanza di condividere, e quanto sia fondamentale l’unione nazionale. Quando c’è un trauma ovviamente c’è disorientamento. Adesso tutti noi guardiamo le notizie alla televisione per sapere cosa sta succedendo ai nostri soldati. Mio figlio – è Lidar che parla – è stato tra i pochi fortunati che per una coincidenza si trovava a casa per il giorno di riposo, mentre tristemente la sua compagnia dei Golani, composta da 42 soldati, è stata sterminata. È difficile, perché mio figlio sta combattendo, e sono grata ad HaShem che sia vivo. Ma ci sono tante parti di me che devono essere in grado di funzionare. Quando mi devo occupare dei miei pazienti la mia vita personale deve essere messa da parte; l’angoscia per mio figlio la devo accantonare. Quando da piccolo si chiedeva se arruolarsi o meno, mio figlio ha detto: “faccio parte del popolo ebraico e devo fare la mia parte per Israele”, e così ha deciso di arruolarsi.

C’è differenza tra questo e altri traumi?
“Questo trauma è molto spaventoso perché siamo stati colpiti tutti. Ci siamo resi conto che il trauma della Shoah non è affatto superato perché è riemerso con gli eventi del 7 ottobre e con la paura che ci assale giorno per giorno. È difficile anche perché non abbiamo un capo del governo che si assume le responsabilità. Stiamo vivendo questo trauma in diretta, siamo testimoni di tutto ciò che accade attraverso i media. I giornali, i social, ci mostrano la realtà del terrore, la vediamo in faccia. Vogliamo smettere di vivere nella paura, nell’incertezza e nell’insicurezza. Ma abbiamo bisogno di un interlocutore dall’altra parte che sia interessato a fare la pace. Adesso in Israele non ci siano abbastanza psicologi per assistere questo popolo traumatizzato. Sappiamo che noi ebrei siamo dotati della resilienza che abbiamo ereditato dalle generazioni passate. Abbiamo imparato ad affrontare i traumi e a superarli per quanto possibile. Ma adesso dobbiamo concentrarci sul presente. Dobbiamo facilitare l’espressione delle emozioni legate al trauma, perché altrimenti si accumulano in un cocktail tossico dentro di noi, consolidando la lesione psichica. E non dobbiamo dimenticarci che ci troviamo in Israele e che, nonostante il trauma, non siamo come i sopravvissuti della Shoah che non avevano una terra dove andare, che non avevano un esercito, e che non avevano un governo riconosciuto dalla diplomazia internazionale. Insomma, abbiamo Israele con i suoi pregi e con i suoi difetti”.

David Gerbi, psicologo e psicoanalista junghiano