SOCIETÀ – Assael: dal collage all’infodemia, il nuovo volto del pregiudizio

L’antisemitismo, si sa, nella nostra epoca ha assunto nuove forme. Se si è, forse, allontanato dai cosiddetti partiti mainstream che occupano il centro dell’arco istituzionale (inutile ricordare le nostalgie di Almirante e del primo Fini, oppure il saluto militare di Arafat davanti al feretro di Berlinguer), si è insediato in nuovi ambienti. Anzitutto, anche questo è noto nella corposa presenza islamica che i flussi migratori degli ultimi decenni, assieme al passato coloniale del nostro continente, hanno favorito. In secondo luogo, nell’ideologia post e/o de-coloniale che ha animato movimenti di massa come la cancel culture o Black Lives Matter, dove giocano un ruolo sia la retorica araba anti-occidentale che l’introiezione di generali parametri terzomondisti oggi rappresentati da nazioni in grado di giocare un ruolo non secondario nello scenario geopolitico globale. Movimenti, tra l’altro, con cui il mondo ebraico, soprattutto statunitense, sta cercando di instaurare un dialogo per non disperdere il potenziale di emancipazione sociale a cui l’ebraismo diasporico è, per ovvie ragioni, sempre stato legato. A giudicare da quanto visto nelle grandi università americane, tempio del pensiero liberal, i risultati non sono incoraggianti. C’è, però, una nuova forma di antisemitismo tipica del nostro momento storico. La definirei «collage» e consiste nell’andare alla ricerca di una mezza frase, una voce dal sen fuggita, una qualunque dichiarazione a fine di propaganda interna dell’ultimo rappresentante politico di un Paese, a prescindere dal suo livello di rappresentatività, per confermare una propria tesi costituita a priori. Cosa evidentemente facilissima nell’era internet, dove certo non manca il materiale a disposizione. Se Sergio Della Pergola ha recentemente mosso le proprie aspre critiche al Direttore di Limes Lucio Caracciolo per un editoriale in cui rispolverava il progetto dell’ideologo dei kibbutzim Yitzhak Tabenkin (C’è luce oltre la guerra, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 10/2023) per confermare le mire espansionistiche di Israele, che ora avrebbe l’occasione di rispolverare antichi progetti che lo volevano unico Stato dal Mediterraneo al Giordano, un altro recente esempio l’abbiamo avuto da un articolo apparso su Domani del 7 gennaio a firma di Guido Rampoldi, giornalista orientato, ma certo conoscitore dell’area mediorientale. Il dito è puntato contro la, assai presunta, volontà israeliana di «evacuare» i palestinesi di Gaza con destinazione Congo, o chissà quale altro Paese, forse l’Arabia Saudita. Insomma, una «soluzione finale» del problema palestinese. Fonti di questa non notizia? Un articolo del Times of Israel, che si riferisce ad oscuri informatori governativi, prontamente rilanciato da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, in disperato calo nei sondaggi, come tutto il governo Netanyahu (l’ultima rilevazione dice che solo il 15% degli israeliani vorrebbe essere ancora rappresentato dall’attuale premier e che il 62% vuole immediate elezioni appena concluso il conflitto). Rampoldi affianca la notizia ad altre dichiarazioni dell’altro membro del Likud in cerca permanete di visibilità, Dany Dannon, che, non si sa se per intuito o per altro, riferisce del presunto supporto all’ «evacuazione» della candidata repubblicana alle primarie Usa Nikki Haley. Il fatto che il Congo sia tra le nazioni più povere del pianeta assolutamente non in grado di assorbire due milioni di gazawi? Non pare indurre ad alcuna riflessione. Rifiuto già esplicitato più volte da un’Arabia Saudita in ben altre faccende affaccendata di «accollarsi» anche mezzo palestinese? Non conta nemmeno questo. Impossibilità pratica e condanna unanime della comunità internazionale che lascerebbe Israele in un isolamento da Sud Africa dell’apartheid? Nemmeno a pensarci. Totali prese di distanza del governo israeliano, che, col suo ministro della Difesa Gallant ha presentato, questo in veste ufficiale, un piano in quattro punti per il dopo conflitto? Non prese in considerazione, così come le dichiarazioni del presidente israeliano Isaac Herzog. Del resto, in un mondo al contrario, possono persino apparire come prova di una volontà di nascondere i reali progetti. Insomma, più che il problema del futuro di Israele e di Gaza qui sembra in gioco il modo in cui si fa giornalismo oggi, dove l’ultimo dei dati pescati dalla rete può valere più di quanto suggerisca il semplice buon senso. Viene da rivalutare il vecchio Aristotele quando, sancendo il primato della deduzione, metteva in guardia dal rischio opposto.

Davide Assael