IL CONTRIBUTO – Ruben Della Rocca: “Se questo è sport”

Sport e propaganda uniti a una robusta dose di antisemitismo. È il fenomeno collaterale al quale stiamo assistendo in maniera raccapricciante in questi giorni con una puntualità disarmante e a macchia d’olio, sparso per il pianeta. Che le competizione e gli eventi sportivi di grande impatto rappresentino una vetrina privilegiata per i regimi totalitari lo abbiamo capito fin dal 1936, con quelle Olimpiadi di Berlino che divennero il palcoscenico ideale per dare sfoggio di maestosità ad Adolf Hitler e al regime nazista. Lo stesso accadde per i mondiali di calcio del 1978, “pilotati” verso quella vittoria dell’Argentina che permise ai militari al potere del Generale Videla di utilizzare l’organizzazione e il trionfo finale in termini propagandistici.
Negli anni successivi Usa, Urss e Cina si trovarono al centro di organizzazioni e boicottaggi reciproci di altre olimpiadi, fino ad arrivare agli ultimi Mondiali di calcio, organizzati e giocati in Qatar, emirato sponsor del terrorismo di Hamas e dove i diritti umani sono pressoché inesistenti. Furono però le Olimpiadi del 1972, con la strage di Monaco degli undici atleti israeliani da parte dei terroristi palestinesi, a segnare l’irruzione brutale e tragica dell’odio antiebraico nello sport. E così, se le leggi razziste promulgate da Germania e Italia nel 1938 annullarono la presenza fisica di atleti ebrei nelle varie discipline, nel 1972, con quell’attacco terroristico, l’annientamento fu fisico.
In tempi più recenti e fino ai nostri giorni e alle ultime ore appena trascorse è lungo l’elenco dei casi di singoli atleti israeliani ed ebrei oppure di intere squadre vittime di boicottaggio. Basti pensare alla nazionale israeliana di calcio, impossibilitata a partecipare alle fasi eliminatorie e a gareggiare nei gironi asiatici dei campionati Mondiali di calcio, tanto per il boicottaggio dei paesi limitrofi musulmani quanto per la delicatezza della questione sicurezza. Oppure quei fenomeni odiosi di antisemitismo mascherato da antisionismo che accompagnano troppo spesso le squadre israeliane di varie discipline, come accadde alla squadra nazionale di tennis nel 2009, costretta dalla contestazione feroce degli arabi residenti a Malmoe, durante un match di Coppa Davis contro la Svezia a giocare in un bunker a porte chiuse. Oppure le squadre calcistiche di club accolte da curve ostili e colorate dalla bandiere palestinesi, come accade puntualmente in Scozia con la tifoseria del Celtic di Glasgow.
Un numero considerevole sono poi i casi di atleti israeliani boicottati dai colleghi iraniani o di paesi arabi che si rifiutano di gareggiare con loro, dal judo al karate alla lotta greco-romana o di quelli che rifiutano la stretta di mano, come fece in maniera eclatante la stella egiziana del Liverpool Mohammed Salah, in quel caso mentre vestiva la maglia del Basilea nel 2013 in una partita dei preliminari di Champions League contro il Maccabi Tel Aviv. Non esente da questi tristi fenomeni anche il nostro paese con i casi di un tristissimo Emerson Varese-Maccabi Tel Aviv di basket nel 1979 quando la tifoseria degli ultras varesini accolse la squadra israeliana con croci di legno e svastiche in puro stile Ku Klux Klan e con lo striscione “10, 100, 1.000 Mauthausen” e nel calcio il mancato ingaggio nel 1989 da parte dell’Udinese del calciatore israeliano Ronny Rosenthal, bloccato dal boicottaggio antisemita della tifoseria friulana che non voleva un ebreo in squadra. Troppo lungo sarebbe citare poi il razzismo antisemita ed antisionista in tante curve calcistiche italiane ed europee che in questi giorni poi della guerra di Israele al terrorismo hanno preso una posizione filo Hamas.
E ancora casi più eclatanti delle ultime ore come l’esclusione della squadra israeliana under 20 di hockey su ghiaccio dai mondiali di categoria di prossima apertura a Sofia o la rimozione della fascia di capitano a David Teeger, astro nascente del cricket nazional in Sud Africa, “degradato” in quanto ebreo, accampando la scusa che sia meglio per lui e per la incolumità. Un gesto antisemita per proteggerlo, insomma. A chiudere la galleria degli orrori il calciatore israeliano Sagiv Jehezkel, reo di aver dedicato il gol del pareggio per la sua squadra, l’Antalyaspor, alle vittime del pogrom nazi islamista del 7 ottobre di Hamas. Per lui sono scattate le manette prima e l’espulsione poi dalla Turchia, con il placet della federazione calcistica turca, la benedizione del sultano, Recep Tayyip Erdogan, e nel silenzio compiacente e colpevole di Uefa e Fifa, quest’ultima organizzatrice dei mondiali in Qatar. Se Primo Levi titolò il suo capolavoro letterario “Se questo è un uomo”, potremmo parafrasare, con un pensiero colmo di affetto a lui rivolto, “Se questo è sport”.

Ruben Della Rocca

(Nell’immagine, il rifiuto del judoka egiziano Islam El Shehaby di stringere la mano all’israeliano Or Sasson alle Olimpiadi di Rio del 2016)