LA RIFLESSIONE – Rav Somekh: Sanità pubblica o privata?

“Io sono H. che ti guarisce” (Shemot 16, 26) è scritto nella Parashah di questa settimana. I Caraiti, una setta che a partire dal Medioevo ricusava l’interpretazione orale della Torah e pretendeva di basarsi solo sul testo scritto, interpretava questo versetto alla lettera come un divieto ad affidarsi ai medici: solo D. è il nostro guaritore. L’opinione accettata nella tradizione rabbinica è ben diversa. Da un altro versetto che accenna a trattamenti (Shemot 21, 19) impariamo che il medico ha la facoltà di curare (Bavà Qammà 85a), senza che ciò appaia come un’interferenza nei decreti del Cielo (Tossafot ad loc.). Se la pratica medica dovesse essere evitata per questa ragione – argomenta Maimonide – con la stessa logica dovremmo interamente affidarci a D. anche per procurarci il nutrimento giornaliero rinunciando a lavorare. È vero altresì che come si richiede alla persona di ringraziare D. per il pasto, così Lo dovrà ringraziare anche per le medicine (comm. Mishnah Pessachim 4, 9). Certo, la guarigione vera dipende da D. e pertanto “l’uomo deve costantemente pregare di non ammalarsi, perché se ciò dovesse succedere, gli viene chiesto di acquisire dei meriti per poter guarire” (Shabbat 32a). Tuttavia D. mette a disposizione del medico i mezzi terreni per curare (Shulchan ‘Arukh, Yoreh De’ah 336 e Turè Zahav ad loc.). “Un saggio non deve vivere in un luogo dove non ci sia un medico” (Sanhedrin 17b): “Oggi non ci si basa sui miracoli, ma si deve chiamare il dottore e seguirne le prescrizioni secondo l’ordine naturale delle cose” (Chidà di Livorno).
Molto è stato detto e scritto negli ultimi anni su questo argomento soprattutto per quanto attiene ai curanti, meno dal punto di vista dei pazienti. Ferve ormai anche in Italia la discussione sulla natura sociale di questo servizio: è meglio una sanità pubblica sostenuta dallo Stato o una sanità privata? I fautori della seconda opzione ritengono che il sistema sanitario nazionale non sia in grado di fornire un servizio di qualità, mentre i loro oppositori controbattono che non è corretto affidare questo delicato compito al libero mercato precludendone di fatto l’accesso a una larga fetta della popolazione. Le domande cui siamo tenuti a rispondere sono dunque: è la medicina un diritto dei cittadini? Se sì, in che misura i medici sono tenuti a garantirlo a detrimento dei loro stessi diritti e interessi?
“Chi è l’uomo perché tu gli affidi un incarico?”, domanda il Salmista (Tehillim 8, 5; cfr. Bereshit 39, 4). Occorre ricordare che l’ebraismo è una filosofia di doveri e non di diritti: la parola zekhut, con cui in ebraico moderno si designa il diritto, significa propriamente “merito”. Studiando le fonti halakhiche dalla Torah in poi, pertanto, possiamo solo dedurre i diritti dalle Mitzwot corrispondenti. Su questa base il giudice Haim Cohn (Human Rights in Jewish Law, New York, 1984) scrive di un diritto alla vita e di un diritto alla proprietà. La Torah dice in proposito: “Non vedrai il bue del tuo fratello o la sua pecora smarriti e te ne disinteresserai, bensì li restituirai al tuo fratello… e glielo restituirai” (Devarim 22, 2). La ridondanza espressiva viene interpretata come ingiunzione a restituire anche la salute smarrita (Sanhedrin 73a): dunque prestare cure mediche è addirittura un obbligo (Maimonide, comm. Mishnah Nedarim 4, 4), al quale corrisponderà un diritto a riceverle. Ma è interessante notare che l’autore non dedica un capitolo a questo specifico diritto: evidentemente recuperare la salute non è come rientrare in possesso di altri beni. Essa ci è stata affidata in custodia da Altri sotto la nostra responsabilità ed è insostituibile. Curare e prevenire le malattie non è semplicemente un diritto: è un obbligo per i pazienti come lo è per i medici. “E starete molto attenti alle vostre persone” (Devarim 4, 15) significa guardarsi da situazioni di pericolo, compresi i malanni. Il problema è come gestire al meglio l’interfaccia dei due obblighi: quello del medico di curare e quello del paziente di essere curato.
“Non restare inerte dinanzi al sangue (cioè: al pericolo) del tuo prossimo” (Wayqrà 19, 16). Salvare vite umane è una grande Mitzwah, ma non si può chiedere ai medici e ai ricercatori di dedicarvisi gratis et amore Dei. La Halakhah stabilisce che il personale sanitario ha il diritto di essere retribuito non per il suo impegno intellettuale, che è effettivamente parte della Mitzwah, ma per il tempo investito e le energie profuse nel lavoro. “Se comunque (il paziente) ha pattuito con il medico una cifra cospicua è tenuto a versargliela, perché (lo scienziato) gli vende la propria scienza e ciò non ha prezzo” (Shulchan ‘Arukh, Yoreh De’ah 336,3, a nome del Nachmanide). Aggiunge Rav Chayim David ha-Levy (Resp. ‘Asseh lekhà Rav 6, n. 63) che il medico, anche pubblico, ha diritto a uno stipendio fra i più elevati, che sia in grado di garantire a lui e alla sua famiglia un mantenimento degno, affinché possa continuare a dedicarsi alla scienza senza preoccupazioni. A ciò si aggiunga anche il diritto a condizioni lavorative che non lo conducano all’esaurimento fisico e mentale, nonché un trattamento pensionistico adeguato a fine rapporto, che invogli i giovani ad abbracciare questa importante missione. Medici che si vedano costretti a scioperare per motivi contrattuali, come la cronaca nazionale più recente ha fatto registrare, non onorano nessuno, oltre a mettere a serio repentaglio la salute collettiva.
D’altronde non è giusto lasciare l’intera questione in mano all’iniziativa privata: lo Stato deve assumersi l’onere di garantire un sistema sanitario alla portata di tutti i suoi cittadini, favorendo l’incremento del personale e un rapido accesso alle prestazioni. In chiave ebraica due sono gli argomenti decisivi. “Caro è l’uomo, in quanto è stato creato a immagine Divina” (Avot 3, 14). Ciò comporta una responsabilità verso tutti i nostri simili, a prescindere dalle condizioni economiche di ciascuno. Inoltre proprio nel libro di Bereshit il tema della fratellanza è di primaria importanza. Qui troviamo due tipi di fratelli: Qayin e Yossef. Entrambi sono impegnati sul versante della propria realizzazione materiale: uno lavora la terra (Bereshit 4, 2) e l’altro ne mette via il prodotto (Bereshit 41, 49). Peraltro portano avanti l’obiettivo in modo molto diverso. Il primo si arricchisce a spese altrui (Bereshit Rabbà 22, 7). Alla domanda da parte di D. “Dov’è Hevel tuo fratello?” Qayin risponde piccato: “Forse che io sono il custode di mio fratello?” (Bereshit 4, 9-11). Yossef invece si è sempre preoccupato della sua famiglia. Fin da giovane il padre lo mandava a sincerarsi “come stessero i suoi fratelli” al pascolo (Bereshit 37, 14) e ancora al termine della sua drammatica vicenda egli li rincuorò più volte: “D. mi ha mandato qui (in Egitto) allo scopo di garantirvi un avanzo sulla terra e permettervi di vivere con grande salvezza” (Bereshit 45, 5-8; 47, 12; 50, 19-21). Gli egiziani stessi gli furono grati per la sua politica a favore del prossimo: “e dissero: ci hai ridato la vita!” (Bereshit 47, 24-25).
“Qayin… si rifiutò di prendersi cura di suo fratello e le sue azioni furono direttamente responsabili della morte di Hevel. Yossef, al contrario, procurò cibo, avviò l’amministrazione delle terre e della politica fiscale in modo da prendersi cura dei suoi fratelli, delle loro famiglie, della sua nazione adottiva e del mondo intero. Yossef costituisce dunque un modello di gestione della sanità pubblica e un esempio di come si possa garantire accesso universale alle cure” (Jonathan Tobin, Am I my brother’s keeper? A Tale of Two Brothers and Health Reform, in “Conversations”, The Institute for Jewish Ideas and Ideals, New York, 6, 2010, p. 101).

Rav Alberto Moshe Somekh