TORINO – Addio a Daniele Segre, il regista degli ultimi

Occhi buoni e la malinconia dipinta sul volto di uomo gentile e mite. “Ma dietro quella apparente docilità, Daniele Segre nascondeva una determinazione e una forza straordinaria. Lo dimostra la sua carriera: un regista capace di scavare nelle aree meno battute nella nostra società e raccontare le storie degli ultimi, degli emarginati”, ricordano a Pagine Ebraiche i coniugi David Terracini e Bruna Laudi. Entrambi avevano avuto lunghe conversazioni con Daniele Segre sul suo lavoro e sulla sua identità ebraica. Dialoghi poi diventati interviste per il giornale ebraico torinese HaKeillah. “Con noi si era aperto sui suoi rapporti con l’ebraismo e la Comunità. Era una voce originale e la sua morte è una grande perdita”, sottolinea Laudi.
Alessandrino di nascita, scomparso a Torino a 71 anni, Segre ha puntato sin dall’inizio la sua telecamera sulle zone in ombra della società: dal racconto sulla tossicodipendenza nella periferia torinese (Perché droga – 1976) alle vite degli ex degenti degli ospedali psichiatrici (Non c’era una volta – 1989), dalle lotte degli ultimi minatori in Sardegna (Dinamite – 1994) alle morti bianche nei cantieri edili (Morire di lavoro – 2008). “Sicuramente il fatto di far parte di un popolo perseguitato ha influenzato il mio impegno nel difendere gli indifesi”, racconterà il regista a Terracini.
Dalla sua abitazione Segre vedeva “i cipolloni sulle torri del tempio” della sinagoga in stile moresco di Torino, provando “conforto e un sentimento di appartenenza”. Lui in quegli spazi c’era cresciuto. “Era il figlio di Lelio, lo shammash della Comunità, che aveva il compito di tenere in ordine il tempio. Mentre la madre Marcella si occupava della portineria”, ricorda Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica di Torino. “La sua famiglia era molto religiosa, aveva un nonno rabbino, ma Daniele non era un frequentatore del tempio. Anzi da piccolo si era sentito escluso dagli altri ragazzi della scuola ebraica. Forse – riflette Disegni – anche questo ha contribuito alla sua visione del mondo”. Sicuramente, come racconta lo stesso Segre, a segnarlo sarà l’antisemitismo. Prima di venire a Torino, aveva frequentato le elementari nel biellese. “Lì ho imparato a correre veloce per sfuggire ai compagni che volevano picchiarmi perché ebreo”. Accadrà anche in un liceo torinese, ma lì a mettere fine agli insulti antisemiti sarà “una scazzottata”. “Non era un uomo che accettava le vessazioni. – afferma Disegni – Sentiva di vivere in un mondo ingiusto e difficile e cercava di dare una voce a chi non l’aveva”. Un approccio simile a quello della fotografa Lisetta Carmi, anche lei nota per rappresentare gli ultimi e con nascerà una lunga amicizia. A Carmi, scampata da giovane alle persecuzioni nazifasciste, il regista dedicherà nel 2010 il documentario “Lisetta Carmi, un’anima in cammino”.
I ritratti di personaggi più o meno noti sono parte del repertorio di Segre, che darà voce anche a Giuliana Fiorentino Tedeschi, sopravvissuta ad Auschwitz. “Ho deciso di far diventare l’intervista a Giuliana Tedeschi un film – spiegava Segre nel 2013 – poiché ritengo di massima urgenza ricordare la tragedia disumana dei campi di sterminio nazisti in tempi in cui stanno aumentando i gravi episodi di antisemitismo in Europa e nel mondo”.
Oltre all’impegno politico e sociale, Segre nel 1997 prenderà la telecamera per realizzare “Sinagoghe, ebrei del Piemonte”, un film coprodotto con la RAI e dedicato a raccontare il patrimonio ebraico piemontese. “Volevo fortemente realizzarlo e l’ho dedicato ai miei genitori. Un atto dovuto alla mia storia di ebreo piemontese”, dichiarava nel colloquio con Terracini. Ai genitori in più occasioni renderà omaggio. “Ho respirato ebraismo da quando sono nato, però nella libertà. – raccontava al sito CineCriticaWeb – È merito dei miei genitori. Mi hanno sempre dato la possibilità di scegliere, sapendo che avrei potuto sbagliare. E ho sbagliato molte volte”. Nonostante questo Segre, docente alla Scuola nazionale di Cinema, ha sempre perseverato, costruendosi una carriera fatta di riconoscimenti internazionali, ma anche di incomprensioni e contrasti. Come ricordano i figli Marcella ed Emanuele ha realizzato “film scomodi e provocatori, è stato ideatore di un inconfondibile linguaggio cinematografico di rottura con i canoni convenzionali. Insegnante esigente e stimato, ha introdotto al cinema sociale generazioni di studenti, trasmettendo loro perseveranza, passione e competenze tecniche”.
O come disse lui di se stesso: “Condurre certe battaglie in piena solitudine è dura. A volte la tua immagine è fraintesa e ti attaccano etichette che non ti corrispondono”. Ma non per questo, aggiungeva, quelle battaglie non dovevano essere condotte.

Daniel Reichel