7 OTTOBRE – Quando il trauma è anche quello del terapeuta

Barbara Rachel Cerminara è psicoterapeuta con orientamento junghiano. Ebrea, Barbara vive e lavora nel Regno Unito. La intervista il collega David Gerbi.

Come si evita di cadere nella disperazione dopo il 7 ottobre?
Io per prima mi trovo a dover lasciare diversi aspetti del mio essere fuori dalla “therapy room”. Devo anche premettere che ho perso mio nonno e la mia bisnonna ad Auschwitz: con l’arrivo delle notizie da Israele il trauma transgenerazionale si è riattivato e ho dovuto contenere una valanga di emozioni. Il mio dolore non era solo mio, apparteneva piuttosto al nostro collettivo, a quella storia che ci lega come “tribù”. Quando il collettivo si risveglia in noi la sofferenza è straordinariamente intensa: è una sofferenza capace di sbilanciarci completamente, e credo che questa sia una delle ragioni per cui ci sentiamo tutti un po’ smarriti al momento.
Ma la Barbara ebrea che sta elaborando il trauma deve rimanere fuori dalla “therapy room” per non influire sul materiale psichico del paziente, perché alla fine è il paziente quello che conta. E in questo io faccio del mio meglio per mettere da parte la Barbara che sta vivendo il trauma. Non tutti i miei pazienti sanno che sono ebrea.

Come fai a gestire tutte queste “Barbare”?
“L’essere umano” mi accompagna nella seduta, è sempre con me, altrimenti non mi sarebbe possibile condividere la sofferenza dei miei pazienti. Ma certamente la Barbara con i suoi problemi personali, e quella che sta elaborando il trauma collettivo restano parcheggiate fuori.
Noi terapeuti della diaspora dobbiamo confrontarci con problemi specifici alla nostra condizione. Parlo di quello che succede al di fuori della seduta, e mi riferisco in particolare alla recrudescenza dell’antisemitismo, all’odio contro l’ebreo che in questo Paese è ormai oltre misura, un odio che si infiltra nella seduta stessa. Mentre all’inizio, nonostante il mio trauma, il lavoro con i pazienti è andato avanti normalmente, man mano che la risposta d’Israele si è intensificata, e la manipolazione da parte dei media è diventata più marcata, con la BBC in prima linea, ho notato un cambiamento nei miei pazienti, alcuni dei quali mi hanno attaccata. L’attacco, quindi, non arriva più solo dall’esterno. Non è facile gestire gli attacchi che provengono dall’interno della seduta. In questi casi cerco di “contenere” l’ira del paziente, aiutandolo a elaborare il materiale psichico. Perché alla fine la rabbia nei confronti d’Israele è una digressione. Ma certo, quando la ferita viene riaperta all’interno della seduta, la Barbara traumatizzata che è rimasta fuori dalla porta entra nella stanza e viene scossa nuovamente. Ci vuole molta forza per navigare queste situazioni. Paradossalmente questa forza proviene da quella stessa vulnerabilità, perché, nonostante tutta la sofferenza, noi ebrei siamo ancora qui. Credo che il paziente possa, inconsciamente, trarre forza dalla nostra determinazione a vivere e prosperare, dal nostro attaccamento alle radici, e dal nostro senso di appartenenza. Vista la nostra storia, noi siamo i detentori di speranza par excellence. Ed è importante offrire empatia al paziente, e aiutarlo a capire cosa sta vivendo.

Ho vissuto un’esperienza analoga all’ospedale psichiatrico di Bengasi, inviato dalla Farnesina nel 2011. I colleghi mi hanno accolto a braccia aperte. “Ah sì benissimo, lui è psicologo specializzato nell’affrontare i traumi causati dalla guerra ed è libico … però è ebreo”. Vivevano un paradosso: “La persona che mi salva è la stessa persona che è anche il mio nemico”.
Non tutti i miei pazienti sanno che sono ebrea, nonostante ci siano elementi nel mio studio che funzionano da segnale; ma quelli che lo sanno ora vivono un conflitto di lealtà. Un paziente spagnolo che all’inizio mi ha dimostrato molta empatia mi ha colta impreparata quando mi ha accusata di essere complice di un nemico, Israele, che uccide i bambini. Il conflitto è tra il rapporto con il terapeuta di cui loro si fidano, o almeno si sono fidati finora, e l’odio nei confronti d’Israele. C’è un punto interrogativo nei confronti dell’integrità del terapeuta. “Com’è possibile”, si chiedono, “che il terapeuta sia dalla parte d’Israele, un Paese che uccide bambini? Ci si può fidare veramente?”.

Qual è l’esito di questo conflitto?
Questo conflitto interno produce sofferenza e confusione nel paziente. Alcuni dei miei colleghi ebrei qui hanno regole ferree: non permettono al paziente alcuna digressione sull’attuale conflitto. Parlare con colleghi fidati aiuta. Qui siamo obbligati ad avere dei “supervisori” con cui discutere il materiale clinico. Poi c’è mio marito: un rabbino americano. Come rabbino mi offre nuove prospettive, e da bravo americano, il suo innato ottimismo controbilancia la mia tendenza pessimista di donna europea con un trauma collettivo alle spalle. Ma alla fine sono le risorse interiori che contano in questo momento di isolamento, e il fatto di essere ebrea, nonostante tutti i traumi, è la forza vitale – il fuoco ancestrale direi – a cui attingo, durante le sedute come nelle discussioni nel forum junghiano a cui partecipo. Bisogna parare i colpi pure lì: l’attacco a Israele e a coloro che sostengono Israele è feroce e spregevole. Molti dei nostri colleghi e amici junghiani ci hanno voltato le spalle, come del resto ha fatto Jung stesso durante la guerra. Il forum è diventato un concentrato di propaganda antisionista – “Israele è uno stato genocida” – in cui fatti storici sono liberamente reinterpretati. Io mi trovo a lottare con i colleghi che non condannano il terrorismo di Hamas e giustificano il massacro del 7 ottobre. Questa è causa di grande delusione, amarezza, rabbia e preoccupazione.

C’è differenza tra questo e altri traumi?
Si, assolutamente, questo è un trauma intergenerazionale. Un conto è vivere un trauma personale, ad esempio un lutto, o un abuso. Ma il trauma intergenerazionale è potente perché riattiva tutti i traumi: il collettivo e il personale si mescolano in una miscela esplosiva. L’ho visto succedere su me stessa ma anche su pazienti libanesi, siriani e palestinesi. A quel punto non si parla più con una voce singola: si parla con la voce del collettivo. Ti esprimi con mille voci, è un cocktail potentissimo per via dell’emozione che è associata alla verbalizzazione del trauma. Devi moltiplicare il tutto per milioni di voci: quelle attuali e quelle ancestrali. Riemerge tutta la storia, antica e recente. Nel nostro caso la storia del popolo d’Israele minacciato e traumatizzato ritorna alla superficie (Purim, Hanukkah, Pesach, i pogrom, la Shoah etc.). Ma questa è anche la nostra forza: nonostante tutti i traumi siamo ancora qui.

David Gerbi, psicoanalista junghiano