IL CONTRIBUTO – Adachiara Zevi:
La difesa degli ebrei non sia monopolio della destra
Excusatio non petita. Mi ritengo una buona ebrea, certo non religiosa, non rispettosa di tutte le mitzvoth, un’ebrea laica, genere in via di estinzione, profondamente identificata, come mi hanno insegnato i miei illustri genitori. Ho sempre avuto Israele come riferimento ideale e reale, per motivi identitari e affettivi, politici e professionali. Ricordo nel ’55 quando andammo per la prima volta a trovare mio nonno, lì emigrato nel 1938, con una grande forma di parmigiano che rotolava nell’aeroporto di Ciampino (Fiumicino non esisteva ancora). Per continuare le mie referenze, sono stata volontaria in Kibbutz dopo la guerra dei Sei Giorni, ho militato nel gruppo “Martin Buber ebrei per la pace” che aveva il suo riferimento nel movimento pacifista israeliano Shalom Achshav, pace adesso. Ho studiato e ancora studio l’ebraico per sentirmi a casa in Israele, ho curato mostre di artisti italiani in vari musei, ho fatto l’Ulpan durante la guerra di Gaza del 2014 e sono appena tornata da Israele dove ho condiviso con parenti e amici il loro smarrimento e la loro tristezza.
Il 7 ottobre, come tutti gli ebrei della diaspora, mi è caduto il mondo addosso, non solo per l’orrore di quanto accaduto, non solo per la consapevolezza della profonda vulnerabilità di un paese che si considerava fino ad allora invincibile. Ho capito che la sopravvivenza di Israele è la condizione per la sopravvivenza di tutti noi; una consapevolezza razionale che è diventata all’improvviso emotiva e viscerale. Ero convinta, tra lo stupore di quanti mi conoscono, che Israele dovesse reagire nel modo più determinato possibile, a qualsiasi costo, che non ci fosse spazio per il dialogo, la trattativa, la critica, il dubbio, il “ma” e il “però”. O con Israele o contro Israele; tutto il resto, la sorte di un governo che non è stato in grado di difendere il paese dall’attacco più feroce subito dalla sua nascita, il dopoguerra, la ricostruzione, la sorte di Gaza, tutto poteva essere rimandato. A quando? A dopo la liquidazione di Hamas. Perché, e su questo non c’è discussione, su Hamas ricade tutta intera la responsabilità del 7 ottobre e della guerra che ne è seguita, una guerra per la legittima difesa di un paese aggredito da una banda di assassini feroci e spietati. Sono passati quattro mesi da allora: molti capi di Hamas sono stati uccisi, molti tunnel sono stati smantellati ma solo pochi ostaggi sono tornati a casa, molti soldati israeliani sono morti in battaglia, oltre 25.000 palestinesi sono morti sotto le bombe, l’economia israeliana è in profonda crisi, l’agricoltura in ginocchio, l’edilizia ferma, il turismo assente. Come ha sostenuto lucidamente Ehud Olmert, ex primo ministro, l’obiettivo di distruggere Hamas è impraticabile: sono centinaia e centinaia di terroristi sparsi nei paesi arabi e nel mondo, pronti a tutto, decisi a cancellare Israele dalla faccia della terra, cinicamente indifferenti alle sorti del popolo palestinese dietro al quale vigliaccamente si nascondono. Non è facile scovarli e ucciderli a meno di non dichiarare guerra a tutto il mondo, in un delirio di onnipotenza nel quale non possiamo riconoscerci. Alla domanda su quanto durerà questa guerra, il governo risponde: molti anni. E cosa ne sarà degli ostaggi, dei soldati israeliani, dei civili palestinesi, dell’economia israeliana?
Dopo il 7 ottobre tutto il mondo si è stretto intorno a Israele, da tutto il mondo sono partiti volontari per andare al fronte, il paese si è mobilitato con uno slancio di generosità senza precedenti per preparare pasti e raccogliere i prodotti nei kibbutz evacuati. Allo stesso modo, all’estero, ognuno ha cercato di fare la sua parte per accogliere, proteggere, far sentire a casa. Un governo di unità nazionale era la prova tangibile di una unità riconquistata e ha rassicurato ognuno di noi che quella guerra era giusta e sacrosanta. Le migliaia e migliaia di israeliani che, indipendentemente da ogni credo politico e religioso, hanno sfilato ogni sabato per mesi contro una riforma liberticida, hanno sospeso ogni manifestazione di protesta. Solo il suono assordante degli allarmi rompeva il silenzio altrettanto assordante che regnava nelle città israeliane; la vita continuava ma sospesa e rarefatta, mentre una coltre di tristezza copriva strade, piazze, bar, ristoranti e spiagge di una delle città più vitali del mondo. E i non ebrei? Dopo pochi giorni di totale e sincera solidarietà, l’equiparazione ebrei-israeliani, antisemitismo-antisionismo si è ripresentato con particolare virulenza in tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti, nei campus universitari che dovrebbero garantire la democrazia e la cultura del dialogo. Siamo allibiti, increduli e impauriti, la sinistra tace e latita quando non attacca Israele, mentre la destra occupa opportunisticamente lo spazio vacante: l’unica manifestazione pro-Israele è stata indetta dalla Lega di Salvini mentre la manifestazione contro l’antisemitismo promossa a Roma il 5 dicembre dalla comunità ebraica e dall’UCEI è stata una ostentazione di bandiere israeliane e una passerella per gli esponenti del governo. Ma sono gli ebrei che devono indire manifestazioni contro l’antisemitismo? Ma sono gli ebrei che devono celebrare il Giorno della memoria per ricordare il loro sterminio? Continuiamo da decenni a ripetere le stesse cose e a ricalcare lo stesso copione. Dobbiamo essere chiari: questa delega della difesa del nostro diritto e di quello di Israele a esistere a chi storicamente non ha fatto che conculcarlo imbarazza e inquieta profondamente molti di noi che si sono battuti in anni passati contro l’antisemitismo di sinistra, per la critica a Israele, per i due popoli e i due stati. Avevamo allora come riferimento il movimento pacifista israeliano, cancellato dall’abbraccio mortale tra Likud e partiti religiosi. Oggi, a quattro mesi dall’inizio del conflitto, il nostro riferimento devono essere le migliaia di israeliani che hanno deciso nuovamente di scendere in piazza, con due obiettivi: la liberazione immediata degli ostaggi a qualsiasi condizione, le dimissioni di Netanyahu e nuove elezioni. Il coraggio, la costanza e la misura di questa fetta di società israeliana è senza precedenti, paragonabile forse, ma per difetto, a quella che negli anni ’60 e ’70 costrinse gli Stati Uniti a ritirarsi dal Vietnam. Rivendicano, anche in tempo di guerra, il diritto alla critica, si ribellano contro i soprusi di un uomo corrotto che ha armato la mano degli assassini di Rabin, che ha fatto del potere un’arma per i propri interessi e per quelli della sua famiglia, e che pur di salvarsi è disposto a portare il paese alla rovina, come sta dimostrando con il rifiuto di uno Stato palestinese smilitarizzato proposto da Biden. La frase di Netanyahu: “Non ci sarà nessuno Stato palestinese finché io sarò al governo” è un chiaro messaggio alla destra più oltranzista di lui: se mi rinnoverete la fiducia avete la mia parola che non esisterà mai uno Stato palestinese. Un uomo, soprattutto, che non pone la liberazione degli ostaggi come priorità del conflitto.
Quegli israeliani hanno capito che una guerra senza obiettivi precisi, senza scadenze temporali, senza un piano per il dopoguerra, non è una guerra per il bene e la sicurezza di Israele ma per il bene personale del suo capo di governo braccato che, a guerra finita, dovrà rendere conto non solo dei reati da lui commessi ma anche dell’incapacità di difendere il paese dagli attacchi a tradimento di Hamas.
Quegli israeliani sanno che una guerra a oltranza porterà inevitabilmente, come sta già accadendo, all’allargamento del conflitto e al disastro per Israele.
Dobbiamo sensibilizzare tutta la società italiana su questi obiettivi. Delegare alla destra la difesa di Israele e la lotta all’antisemitismo, con la giustificazione che la sinistra non fa nulla, è una assurdità, un controsenso, un ossimoro. Non possiamo fidarci e affidarci a un governo nel quale siedono componenti decisamente razziste, che disprezzano le minoranze, il pluralismo, la democrazia. Questo governo ha sconfessato le leggi razziali ma non ha mai preso seriamente le distanze dal regime che le ha promulgate.
Tanti, sono certa, nutrono dubbi ma non parlano, hanno paura di essere tacciati come anti-israeliani, come quelli del “ma” e del “però”. I migliori ti ascoltano e poi alzano le braccia dicendo “ein bhirà”, non c’è scelta. C’è sempre un’altra scelta possibile. Il diritto alla critica, al dubbio e all’interrogazione è parte integrante dell’anima e della cultura ebraica. Esercitiamolo senza timore. “Iesh bhirà” e ce la additano gli israeliani che scendono in piazza con il cuore spezzato, che occupano la “piazza degli ostaggi” e il Parlamento, pensando ai loro figli nelle mani di mostri sadici e stupratori.
Adachiara Zevi