LA CRITICA – Ruben Della Rocca:
La Repubblica di Ghali

Si spegne finalmente la eco indigesta di un festival della canzone italiana, Sanremo, sempre più palcoscenico per rivendicazioni di varia natura e megafono per politica spicciola e di bassa lega.
La Rai, ente pubblico, da anni permette che la competizione canora si trasformi in un momento strumentalizzabile per momenti di presunta riflessione.
Una formula discutibile, quanto meno per il contesto e le condizioni in cui questi momenti d’elaborazione socio-politica avvengono.
È evidente che una volta sdoganata la possibilità di potersi esprimere sullo scibile umano da parte dei conduttori, dei loro partner sul palco e degli artisti in gara può accadere di tutto; e questo è accaduto.
La superficialità, la grettezza e il finto buonismo, accattivante e allo stesso tempo ammiccante a un’opinione pubblica già centrifugata da una informazione purtroppo faziosa nei confronti del conflitto tra Israele e Hamas era una occasione troppo ghiotta per non mietere consensi populistici.
Ecco quindi che una parte degli artisti ha pensato bene di trasformare la propria esibizione, una volta terminata la parte cantata, in una ruffiana campagna “acchiappalike”.
Siamo stati costretti a sorbirci i moniti di Dargen D’Amico, che tra orsacchiotti e improbabili occhialoni ci ha propinato la sua banalissima formula pacifista sul “cessate il fuoco”, come se avesse scoperto la formula magica e non ci fossero nazioni e contendenti che la stanno ricercando da settimane, drammaticamente senza grandi risultati.
Ma soprattutto abbiamo assistito agli show di Ghali, accompagnato dalla mamma, cosa che a noi italiani teneroni piace sempre e che con molto candore, con toni da guru ghandiano, ha sciorinato la sua retorica antisionista (la moderna formula di antisemitismo) al punto tale da costringere a intervenire l’ambasciata di Israele, oltre che la comunità ebraica di Milano.
Nessun artista, visto che ormai era chiaro durante il festival che tutto era consentito, ha sentito comunque il bisogno di ricordare gli ostaggi rapiti da Hamas e le centinaia di giovani sterminati il 7 ottobre proprio durante un rave musicale. Chi più di chi si occupa professionalmente di fare musica avrebbe dovuto farlo?
Si poteva evitare tutto questo?
Si doveva evitare tutto questo.
La kermesse ha un suo regolamento e dovrebbe includere, se non lo fa già, il divieto di portare sul palco qualsiasi rivendicazione, finanche buonista e pacifista, perché non è a Sanremo, nel corso di una gara canora, che si può aprire un dibattito politico.
Per questo ci sono altri contenitori e altre trasmissioni di approfondimento.
Bene ha fatto Roberto Sergio, amministratore delegato della Rai, a intervenire dissociando l’azienda da Ghali, ma doveva farlo prima perché il sentore che il tutto sarebbe accaduto era nell’aria e scontato e andava bloccato sul nascere.
Andavano imposte ad Amadeus, conduttore compiacente nonché responsabile artistico del festival, “regole di ingaggio” ferree, a maggior ragione in un momento così delicato in cui fomentare l’odio antiebraico in menti psicolabili e in una opinione pubblica drogata da un uso disinvolto di termini, stereotipi e immagini montate ad arte, è purtroppo facilissimo.
Ultima annotazione per Roberto Sergio: ricordare la Shoah durante i giorni che precedono il 27 gennaio e dedicargli parte del palinsesto è encomiabile per l’ente pubblico, ma non deve essere motivo di vanto e autocelebrazione.
Farlo non è un favore rivolto a noi ebrei, ma è il modo per fare cultura, insegnamento e trasmissione della Memoria alle nuove generazioni.
Tutto sommato un atto dovuto per un ente pubblico.

Ruben Della Rocca