UNIVERSITÀ – La Shoah e i genocidi
Guetta: Uso delle parole spesso distorto
Poche parole sono usate a sproposito in questo periodo come “genocidio”, vibrata come un’arma dal Sudafrica nel procedimento intentato contro Israele all’Aja e veicolata da una propaganda ostile allo Stato ebraico che ha attecchito anche in Italia. L’impressione è che sia in atto “un grande offuscamento delle menti, insieme a una incapacità di vedere e a comprendere la complessità: ci facciamo colpire dalla superficialità delle cose e dalla propaganda, non ci facciamo più domande”, ha rilevato con disappunto la professoressa Silvia Guetta, introducendo il secondo incontro del corso di perfezionamento in didattica della Shoah dell’Università degli Studi di Firenze. Dallo Yad Vashem era collegato lo storico israeliano Yehuda Bauer, tra i fondatori e già presidente onorario dell’International Holocaust Remembrance, che nel suo intervento ha evidenziato tratti peculiari e unicità della Shoah. Bauer è stato tra i promotori della Dichiarazione di Stoccolma del 2000, l’atto fondativo dell’Ihra, in cui si rilevano il “carattere senza precedenti” e “il significato universale” della Shoah. Nato a Praga nel 1926, Bauer fuggì dalla Cecoslovacchia il giorno stesso in cui fu annessa alla Germania nazista, riparando nell’allora Palestina mandataria. Nella Sala Pegaso della Regione Toscana sedeva invece un altro storico, l’italiano Marcello Flores, anche lui esperto di genocidi e diritti umani e cui di recente l’Ucei ha affidato l’incarico di stilare alcune schede per il progetto “Il significato delle parole”, svolto in collaborazione con l’ambasciata tedesca. Tra le quattro parole approfondite c’è proprio il termine genocidio, ideato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944 per designare un evento per il quale “non esisteva ancora, nel diritto, una formulazione adeguata”. Lemkin, ha spiegato Flores, iniziò a riflettere su questa definizione ai tempi del massacro ottomano contro gli armeni, seguendo da vicino l’evoluzione del processo contro lo studente Soghomon Tehlirian, affiliato alla Federazione Rivoluzionaria Armena, che nel 1921 uccise a Berlino uno degli artefici della mattanza: Taalat Pasha, ex ministro dell’Interno di quell’impero da poco dissolto, riparato in Germania alla ricerca dell’impunità. “Come era possibile che si potesse mandare a processo l’assassino di una singola persona e non il responsabile dell’omicidio di centinaia di migliaia di individui?”, si chiese Lemkin nei giorni del procedimento giudiziario contro lo studente armeno (poi giudicato “non colpevole”). Interrogativo che sarebbe tornato d’attualità a camere a gas ancora in funzione, “quando le notizie dello sterminio degli ebrei iniziarono a diffondersi e Lemkin venne a sapere che gran parte della sua famiglia era stata sterminata”. Fu così “che dall’unione di una vecchia riflessione teorica e dal successivo incontro con la realtà storica, nacque la definizione di genocidio”. Parola poi incardinata nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, approvata dalle Nazioni Unite nel dicembre del 1948. “Secondo i criteri indicati nella Convenzione, a partire dal secondo dopoguerra abbiamo assistito alla volontà di procedere all’annientamento fisico e programmato di altri gruppi di esseri umani”, ha sottolineato Guetta. Oggi però “assistiamo a un abuso e a una distorsione nell’utilizzo di questo termine per descrivere azioni di guerra che non rientrano nelle categorie riconosciute dalle Nazione Unite”.