LA RIFLESSIONE – Rav Alberto Somekh: pregare per gli ostaggi ritrovando se stessi

È noto che la tradizione rabbinica predilige la Tefillah riflessa rispetto alla preghiera spontanea. Maimonide spiega l’istituzione di un testo comune obbligatorio con il fatto che “quando gli Ebrei sono andati in esilio ai tempi del malvagio Nabuccodonosor si sono mescolati con i Persiani, i Greci e altri popoli e i loro figli non sono più stati capaci di parlare una lingua sola correttamente. Allorché pregavano non erano in grado di articolare le loro richieste e le lodi del S.B. in un ebraico al quale non fossero mischiate altre lingue. ‘Ezrà e il suo tribunale si resero conto della confusione e istituirono Diciotto Benedizioni ordinate… Stabilirono inoltre un numero di preghiere giornaliere in analogia con il numero dei sacrifici…” (Hilkhot Tefillah 1, 3-4). Scriveva il compianto Rav Elia Samuele Artom che “recitando la Tefillah riflessa non si obbedisce a un impulso spontaneo e improvviso dell’animo, ma a un dovere… Tale obbligo mira a far sì che l’uomo, indipendentemente da particolari stati d’animo, che possono… forse anche non verificarsi mai, … ricordi periodicamente a se stesso che cosa egli debba al S. e che cosa egli debba da Lui desiderare per avere il vero bene ed essere in grado di adempiere ai Suoi comandi” (“La Vita di Israele”, Firenze, 1975, p. 48). A ciò si aggiunga l’effetto benefico di unificare tempi e modalità per cui tutti gli Ebrei recitano lo stesso testo alla stessa ora in sincronia.
I Maestri hanno peraltro fin da subito avvertito i limiti di una simile disposizione. Il Tanakh stesso è ricco di preghiere spontanee: si pensi solo al libro dei Tehillim! Nella Mishnah R. Eli’ezer dichiarava che “chi fa della sua Tefillah una routine, la sua Tefillah non sarà più una supplica” (Berakhot 4, 3-4). Di questa affermazione vengono date nel Talmud quattro interpretazioni diverse (Berakhot 29b). Una di queste intende che la preghiera diviene supplica nel momento in cui si introduce qualcosa di nuovo. La Halakhah stabilisce che a chi abbia una richiesta personale da aggiungere al testo canonico sia permesso inserirla nel corpo della benedizione Shemà Qolenu (“Ascolta la nostra voce”: Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim 119, 1). “Secondo questa linea interpretativa il pericolo della routine non è rappresentato semplicemente dal peso mentale di dover pregare o da scelte linguistiche inadeguate, ma da un contenuto che sia esclusivamente frutto dell’abitudine” (Chananel Mack, “Tefillah u-Tfillot”, Rubin Mass, Gerusalemme, 2006, p. 15).
È lecito pregare per la liberazione degli ostaggi elevando Tefillot in modo autonomo, svincolato dai testi tradizionali stabiliti dai nostri Maestri? Per rispondere a questa domanda vorrei trarre spunto dalle Parashot che leggiamo in queste settimane. In esse si parla prima della costruzione del Mishkan, il Tabernacolo nel deserto, e poi del confezionamento degli abiti sacerdotali (bigdè kehunnah). I due temi sono correlati, in quanto fanno entrambi riferimento ad altrettanti elementi simbolici molto simili fra loro, eppure diversi. Il Mishkan si concentra intorno alle due “tavole di pietra” (luchot even), chiamate Tavole del Patto (shnè luchot ha-berit), ovvero della Testimonianza (‘edut). Come spiega Rashì, “si tratta della Torah che funge da Testimonianza fra Me e voi, avendovi comandato le Mitzwot scritte in essa” (comm. a Shemot 25, 16). Gli abiti sacerdotali si incentrano a loro volta intorno alle due pietre di onice (shtè avnè shoham) con i nomi delle tribù di Israel che il Kohen Gadol portava sulle spalle “per Memoria” (zikkaron). Commenta Rashì: “affinché il S.B. vedesse le tribù scritte davanti a Lui e ricordasse la loro giustizia” (comm. a Shemot 28, 12). Abrabanel aggiunge esplicitamente che “quelle pietre servivano a Aharon affinché ricordasse perennemente i Figli di Israel nei suoi pensieri e nelle sue preghiere”.
Impariamo che ‘edut e zikkaron sono i due concetti centrali della nostra relazione con H. La Testimonianza del Mishkan riguarda l’azione di D. verso di noi: il dono della Torah e, più in generale, la parola dei Profeti. Gli abiti del Kohen Gadol hanno invece la funzione inversa di ricordare a H. i nostri meriti. È la base che rende possibile la preghiera. In termini matematici diremo che Nevuah e Tefillah sono i due sensi dello stesso vettore. Di questa argomentazione si serve il Chatam Sofer per rispondere alla domanda sull’esistenza di riti diversi: non avrebbero potuto tutti gli Ebrei del mondo pregare con lo stesso testo? Come i Profeti hanno a loro volta stili personali differenti, eppure esprimono i medesimi concetti, così la differenza di carattere fra le Comunità che è alla base delle modeste divergenze testuali nella Tefillah non mina l’unità di fondo di quest’ultima: semmai la arricchisce.
Quando il 2 dicembre 1942 Rav Herzog, allora Rabbino Capo ashkenazita di Eretz Israel, propose di istituire una giornata di preghiera e di digiuno per la Shoah in corso in Europa, Rav Itzchaq Zeev ha-Levy Soloveitchik, Rav di Brisk, si oppose. Prendendo spunto da un passo delle Qinot di Tish’ah be-Av in cui si piangono i martiri delle Crociate argomentò che se per commemorare gli avvenimenti occorsi in Germania mille anni addietro fu scelto a suo tempo di non aggiungere date tristi al calendario, significa che deve sussistere un divieto in proposito. Di fatto non è mai stato istituito un digiuno indipendente per il ricordo della Shoah. Rispondendo a un quesito sullo stesso tema Rav Moshe Feinstein scrive che “è necessario menzionare queste tragedie nelle lamentazioni del 9 Av sulla distruzione del Tempio” (cfr. Resp. Iggherot Mosheh, Yoreh De’ah, 4, n. 289). Non esiste tragedia più grave di questa: tutti i drammi posteriori della storia ebraica sono in realtà compresi in essa, perché ne sono la conseguenza.
Rav Soloveitchik, nipote del Rav di Brisk, andò oltre: si oppose anche alla scrittura di nuove Qinot da recitarsi il giorno di Tish’ah be-Av per ricordare la Shoah. Nessuno – sosteneva – avrebbe oggi il livello dei poeti del passato in termini di fede, anima ed esperienza, né la capacità di cogliere nel linguaggio l’intensità della tragedia che l’Olocausto ha rappresentato: una sofferenza così spaventosa da essere di fatto inafferrabile. Dedichiamoci allo studio e alla recitazione delle Qinot già esistenti prima di comporne di nuove: le scene descritte e le espressioni di disperazione, di lutto e di lamento sono le stesse (cfr. Jacob J. Schacter, “Holocaust Commemoration and Tish’ah be-Av: the debate over Yom ha-Shoah”, in Tradition 41,2, 2008, p. 164-197). È noto che il Rav era profondamente contrario ai “rituali della rimembranza” da alcuni inseriti nel Seder per ricordare la rivolta del Ghetto di Varsavia, che ebbe luogo in realtà dopo Pessach (Ish ‘al ha-’edah, New York, 2011, p. 159). Questi testi mettono l’accento sull’eroismo degli uomini ma non contengono alcun riferimento al D. d’Israele. Così come alcuni “Yizkor” scritti per commemorare i caduti delle guerre israeliane, letti in occasione di Yom ha-’Atzmaut, sostituiscono l’antica invocazione: “ricordi D.” con “ricordi Israele”, che nulla ha a che vedere con la tradizione ebraica.
Il problema in tutti questi casi è far combaciare zikkaron, la Memoria degli avvenimenti, con ‘edut, la necessità di inserirli nel solco della Testimonianza. La Tefillah nasce da questa tensione. Non siamo più dei David (cfr. Amos 6, 5). In un frangente come quello che stiamo vivendo la soluzione migliore è recitare proprio i Tehillim, i Salmi composti dal vecchio re: particolarmente raccomandati il 20, l’83, il 121, il 130 e il 142. Alcune Comunità hanno stabilito di far seguire alla ‘Amidah alcune espressioni dell’Avinu Malkenu come nei giorni penitenziali. Scegliere testi antichi significa concatenarsi alle generazioni in diacronia. Ben inteso: la disapprovazione di Rav Soloveitchik per testi redatti ex novo non è oggi universalmente condivisa. Fra le Qinot di rito ashkenazita per Tish’ah be-Av sono state accolte due recenti composizioni relative alla Shoah. Scrivere è vitalità, ma nello stesso tempo è responsabilità. Oggi è’ molto difficile innovare, cogliendo nel segno della tradizione in un’epoca così non tradizionale come la nostra, per parafrasare un titolo di Rav Sacks questa volta. In un mondo tanto frammentato l’ebraismo deve per prima cosa saper ritrovare se stesso. Solo allora potrà pensare a dotarsi di un nuovo repertorio vocale.

Rav Alberto Moshe Somekh