FOTOGRAFIA – La Mishpoche di Jan Zappner, una lista di ebrei vivi
Giselle Cycowicz, psicoterapista, è immersa in una elegante poltrona, lo sguardo esamina il cielo fuori dalla finestra. Per lei, sopravvissuta alla Shoah, essere ebrea significa “osservare le leggi ebraiche”. Hanna Veiler, studentessa e poeta, ha un sorriso vivace e divertito. I capelli folti e neri spuntano da un berretto arancione. La posa è di una giovane sicura di sé. Vive la sua identità ebraica “come una fonte di energia”. Pawel Lubarski, ingegnere meccanico, ha l’aria calma e rilassata. Guarda verso un punto indefinito, mentre è avvolto nella penombra. Per lui Emunah, fede, è la parola chiave del suo essere ebreo. “Emunah viene dal verbo lehit’amen, praticare. Per essere credenti, dobbiamo sempre praticare, esercitarci”. Giselle, Hanna, Pawel sono tre delle 39 persone ritratte e intervistate dal fotografo Jan Zappner per il suo progetto Mishpoche (famiglia in yiddish). Un’indagine artistica sul significato di essere ebrei oggi in Germania, diventata un volume e una mostra appena inaugurata a Berlino. “In ogni ritratto ho cercato una connessione con la persona fotografata, volevo far emergere qualche aspetto della sua identità. Prima di tutto, al di là del credo, del suo pensiero, della sua storia, volevo mostrare il volto di un essere umano”, racconta a Pagine Ebraiche Zappner. La prima connessione dunque era quella del cerchio più ampio, quello umano. Poi, grazie alle domande, il fotografo ha scavato in quello più ristretto, ponendo l’eterna domanda: cosa vuol dire per te essere ebreo? Un interrogativo, spiega Zappner, che lo ha accompagnato tutta la vita.
“Io sono cresciuto in parte in Germania in parte in Repubblica Ceca, non avevo un ambiente ebraico con cui confrontarmi. Il mio legame era soprattutto nella lista, che conservo ancora gelosamente, consegnatami da mia madre dei suoi famigliari uccisi nella Shoah. Una trentina di nomi e poco altro”. A lungo quella lista è stata il ponte per Zappner con la sua identità ebraica, piena però di vuoti da colmare, riflette. Così, soprattutto con la nascita della figlia, è iniziato un avvicinamento. “Non volevo lasciare a lei solo una lista di persone uccise”. La ricerca lo ha portato a costruire il progetto Mishpoche, presentato in occasione dei 1700 anni di vita della Comunità ebraica tedesca. In un anno di lavoro, il fotografo si è recato in diverse parti della Germania per ascoltare le voci e ritrarre i volti di 39 uomini e donne e capire da loro il significato di essere ebrei. “Ognuna di queste persone ha cose in cui mi rivedevo. A ciascuna ho rubato un pensiero, una riflessione, una visione per riempire i miei vuoti. È stato un percorso per costruire una maggiore consapevolezza. Un percorso che prosegue ancora adesso perché continuo a interrogarmi e a mettere in dubbio le mie conclusioni. Forse ha ragione Assaf, un regista israeliano: questo è fondamentalmente il cuore dell’essere ebreo”.
Daniel Reichel