DOPO IL 7 OTTOBRE
Economia di guerra, territorio inesplorato
La guerra non è mai un fatto esclusivamente militare. Come tale, la guerra chiama in causa il riversamento che si misura, pressoché da subito, sui civili. Ossia sulle società, nel loro insieme e quindi nel lungo periodo. Veniamo al dunque. Il ministero delle Finanze d’Israele ha stimato che nel 2023, rispetto alle attese di una crescita del 2,7% (in parte destinata anche a coprire gli effetti altrimenti depressivi, di lungo periodo, del Covid), la reale evoluzione del Paese non supererà il 2%. Possono sembrare stime irrilevanti e per nulla problematiche. In sé, tuttavia, potrebbero segnare anche un cambio di passo, tenuto conto che anzitempo il Paese cresceva di anno in anno oltre il 4%. Ma da quando il conflitto con i palestinesi si è rabbiosamente riacceso, l’attenzione verso Israele – come potenziale partner di investimenti internazionali – si è ridotta. Non a caso. Tanto per capirci: l’afflusso di capitali esteri, per Gerusalemme, è da sempre strategico rispetto alla sua economia. La quale, altrimenti, non può basarsi sulle sue sole risorse: non ha le spalle sufficientemente larghe. Da quarant’anni a questa parte l’attrattività degli investimenti stranieri è quindi divenuta un nodo cruciale dell’evoluzione israeliana.
Se fino agli anni Settanta un’economia essenzialmente “statalista”, quindi dipendente dal supporto pubblico nazionale, sembrava essere l’autentica nervatura di un’intera collettività, da allora in poi le cose sono cambiate velocemente. In accordo non solo con l’incontrovertibile rilevanza degli endemici problemi nazionali (inflazione sistematica, cronico deficit della bilancia commerciale, disoccupazione crescente, strutturale debolezza della moneta nazionale, potenziale default del bilancio statale e così via), ma anche con una diversa idea del ruolo dello Stato rispetto alla sfera pubblica. A oggi, in Israele, non a caso abbiamo a che fare con un sistema misto, che coniuga pubblico e privato – al pari dell’Italia e delle società europee. Laddove il pubblico, comunque, sempre meno surroga il privato. Ma non per questo si risolve in esso, di fatto altrimenti deflettendo dai suoi obblighi. Tuttavia, se le economie continentali europee vivono e crescono in un contesto regionale non ostile, per Israele le cose sono ben diverse. E il paese sconta il suo isolamento geografico e politico. Hamas, attaccando, dal 7 ottobre 2023 in poi aveva calcolato anche questo effetto di ritorno in quanto, nelle società odierne, non conta esclusivamente l’aspetto ideologico, politico, civile e culturale. Semmai, interviene anche, e soprattutto, quello materiale.
Per capirci: si sta insieme solo e comunque se i propri bisogni elementari, come tali incomprimibili, ma anche non solo questi, possano essere soddisfatti: non si tratta esclusivamente di un calcolo di natura materialista ed utilitario. Poiché nessuna esistenza individuale, così come di gruppo, riesce a riprodursi se non trova degli addentellati, ovvero un qualche riscontro, nel comune sentire. Che è tale poiché non solo dei propri pari ma anche del resto del mondo. In tale senso, al momento, Israele è comunque isolato. Ne potremmo discutere all’infinito. Non si tratta di attribuire colpe assolute (che sono comunque molte) così come di riconoscere ragioni esclusive. Semmai, è questione di andare oltre l’asfittico orizzonte che si manifesta contrapponendo «identità» incontrovertibili (ossia, “io sono a prescindere da tutto il resto”) a quant’altro.
Torniamo al dunque, ovvero all’economia. Per l’anno appena iniziato il ministero delle Finanze prevede una crescita nazionale dell’1,6%. Qualora, si intenda, che la «guerra del Sukkot» si esaurisca progressivamente con l’attenuazione delle violenze al confine meridionale, quei sessanta chilometri di linea di interposizione che dividono Israele a Gaza. Le medesime ipotesi ritengono che se tutto finisse a breve il Prodotto interno lordo d’Israele potrebbe licenziarsi, al 31 dicembre dell’anno corrente, sulla linea del 2,2%. Qualora la conflittualità dovesse proseguire per tutto l’anno presente, allora non si andrebbe oltre lo 0,2% – posto che ad ottobre del 2023 l’aspettativa di crescita ruotava invece intorno al 3,4%. Una differenza, quindi, non da poco. In quanto se la crescita di un paese è data anche dal livello dei consumi individuali e familiari, ad oggi ci si trova dinanzi ad una forte compressione degli uni così come degli altri. Non di meno, le esportazioni – voce fondamentale della bilancia dei pagamenti – si sono fortemente ridimensionate. Poiché, come molti analisti rilevano, se la situazione bellica si accompagna a una generale incertezza sui costi che potrebbe ingenerare, è non meno plausibile che l’impatto sull’economia israeliana sarà superiore a quello sperimentato nelle crisi degli ultimi due decenni. Prendiamo quindi atto dello scenario che si prospetta, che ha poco o nulla a che fare con il passato. Siamo in una sorta di terra sconosciuta.
Claudio Vercelli