Da Haifa a Berlino, i graffiti del Banksy d’Israele per gli ostaggi
Nel cuore di Berlino, sulla Oranienburger Strasse, i passanti si fermano a guardare un murale di venti metri dipinto sulla facciata di un’abitazione. Ci sono voluti tre giorni per completarlo. Ritrae un bambino immerso nell’oscurità. “Abbraccia il suo orsacchiotto e ha occhi persi nel dolore, nella paura, nell’ignoto del proprio destino. Tiene in mano la corda spezzata di un palloncino, diretto verso il cielo terso e un sole sorridente. Sono la rappresentazione della vita di prima a cui il bambino spera di tornare. Una speranza condivisa da noi, qui fuori, affinché tutti i rapiti imprigionati a Gaza possano finalmente riabbracciare la libertà e le loro famiglie”.
Lo racconta a Pagine Ebraiche l’artista israeliano Benzi Brofman. C’è la sua firma nell’imponente murale realizzato grazie all’ambasciata d’Israele in Germania e all’organizzazione ebraica Ajc su uno spazio concesso dalla città di Berlino. “Ne ho fatti altri a Londra, ad Amsterdam, a Haifa, ma quello di Berlino è il più grande”. In tutti, a caratteri cubitali, compare la scritta “Bring them home now”, riportateli a casa ora. E i giorni di lavoro di Benzi in Europa hanno coinciso con il primo turno di ostaggi liberati da Gaza. Tra loro non c’era la famiglia Bibas: il padre Yarden, la madre Shiri, i figli Ariel, quattro anni, e Kfir, il piccolo di soli dieci mesi. “Non li ho disegnati perché pensavo fosse meglio non usare i volti veri degli ostaggi. Sarebbe stato complicato scegliere quali. Però in alcuni graffiti ho raffigurato i bambini con i capelli rossi come quelli dei fratellini Bibas. I parenti mi hanno chiamato, ringraziandomi”. Street artist di fama internazionale, Benzi spiega che sensibilizzare l’opinione pubblica sul destino dei rapiti è diventata “la missione della mia vita”.
Dopo il 7 ottobre aveva inizialmente deciso di ritrarre le persone uccise. “Io stesso avrei potuto essere tra le vittime. Ero al festival di Re’im per realizzare un murale il 6 ottobre. Finito il lavoro, ho deciso di tornare a casa e non passare la notte alla festa”. Poi la mattina seguente l’inizio dell’orrore: al festival 364 persone sono state assassinate dai terroristi palestinesi, decine rapite. “Ho riconosciuto volti di ragazzi e ragazze che mi hanno dato una mano o con cui ho fatto una foto. Ora non ci sono più”. Dopo i primi giorni di paralisi, spiega di aver deciso di fare volontariato con i bambini dei kibbutz sfollati. “Ho disegnato con loro, facendo sessioni di graffiti. Un paio d’ore per svagarsi”. Ha anche iniziato a realizzare alcuni ritratti delle vittime uccise da Hamas e a inviarle alle famiglie. “Ne ho mandato uno ai genitori di un soldato ucciso. La madre mi ha risposto un mese dopo, raccontando di aver messo il ritratto del figlio nel salone. ‘Porta un po’ di luce nella stanza’, mi ha scritto”.
Dipingere a ripetizione i volti delle vittime non è semplice. “Sono molto concentrato quando lavoro e cerco di non pensare. Fino a quando arrivo agli occhi: in quel momento, nello sguardo, i ritratti sembrano prendere vita”. Come nel caso del murale di Berlino o del dipinto della ventisettenne Inbar Hayman, rapita a Re’im. “Quando mi sono imbattuto in una foto online di Inbar, circondata dai tifosi del Maccabi Haifa, qualcosa nei suoi occhi mi ha immediatamente parlato. Ho poi scoperto di conoscerla grazie alle sue opere: anche lei è un’artista di graffiti. Ho disegnato il suo profilo e l’ho riempito di vita, con la speranza che torni a ballare alle feste, a cantare allo stadio del Maccabi, a vivere”. Non accadrà. Dopo l’intervista è arrivata la notizia della morte di Inbal nelle mani dei suoi aguzzini a Gaza. “Tutto si tinge di nero: rabbia, frustrazione, tristezza. Vorrei solo urlare”, si sfoga l’artista.
L’impegno di Benzi per i rapiti e per le vittime della guerra non si ferma. “In Israele c’è chi è tornato alla sua routine quotidiana ed è giusto così. Io però non riesco”. In patria lo definiscono il Banksy nazionale, anche se le sue opere, almeno fino al 7 ottobre, erano più pop e leggere. Ora il lavoro è cambiato. “Ritraggo gli ostaggi per sensibilizzare il mondo sul loro destino”. La tela e i muri delle città sono il suo strumento, spiega, per non dimenticare la sofferenza di migliaia di persone e famiglie. “La mia arte ha acquistato un nuovo significato”. Questo nuovo corso regala momenti unici. Come l’incontro con i genitori di Matan Elmalem, noto come Dj Kido, assassinato a Rei’m. Benzi ha ritratto Matan a grandezza naturale su di una tela. “Poi ho visto la mamma e il papà guardarla a fondo, farsi una foto con il disegno, sorridendo, quasi Matan fosse lì con loro. Era una situazione surreale, ma allo stesso tempo profondamente vera. ‘Grazie per quello che hai fatto’, mi ha detto il padre, abbracciandomi”.
Daniel Reichel
(Foto di Ruthe Zuntz)