IL CONTRIBUTO – Davide Assael: A Gaza entri materiale davvero umanitario

Il ministro degli Esteri inglese David Cameron, già figura molto influente dello scenario politico europeo prima del disastroso referendum sulla Brexit, ha ammonito Israele sottolineando come il Regno Unito stia perdendo la pazienza per la difficoltà di far arrivare aiuti umanitari nella Striscia di Gaza sotto attacco da mesi. L’ex premier ha poi rincarato la dose dicendo che “non dovremmo dare a Israele un potere di veto, che è l’effetto della politica americana in questo momento”, aggiungendo che i britannici potrebbero aprire al riconoscimento di uno Stato palestinese come preludio ad una politica dei due Stati. Affermazioni analoghe le abbiamo viste arrivare dalla Francia di Emmanuel Macron e dagli Usa di Joe Biden, scommettendo che con un Trump alla Casa Bianca gli auspici non cambierebbero di una virgola. Per accorgersene basterebbe andarsi a riprendere il cosiddetto “Piano del secolo” con cui l’ex presidente voleva risolvere il problema israelo-palestinese, ritagliandosi un posto nella storia. Chi scrive non contesta le parole di Cameron: non servono numeri al dettaglio o chissà quale altro dato di principio falsificabile dalle propagande di guerra (con una certa dose di credibilità in più per il versante israeliano rispetto a quel luogo di repressione estrema e di totale mancanza di qualsivoglia organo indipendente che è la Striscia) per capire che a Gaza si sta consumando una tragedia umanitaria senza precedenti per una terra in cui certo non sono mai mancate sofferenze di vario genere. Ciò che credo si possa contestare è la semplificazione di una simile ricostruzione, che sottrae quanto sta avvenendo – ritardo e limitazioni degli aiuti compresi – a quello che si suole definire “circolo della violenza”. Espressione che non ha nulla di astratto, ma che è affettivamente il ginepraio in cui ci si inserisce nel momento in cui si tenta l’interpretazione di un conflitto, dove ogni azione è una reazione all’azione dell’altro e dove, per principio, tutti sentono di aver subito per primi.
Aggiungo, tra parentesi, che per costruire una, da molti auspicata, filosofia della pace proprio da qui bisognerebbe partire, piuttosto che da astratte formule universali che ancora rispondono al criterio oppresso/oppressore, con le posizioni solitamente assegnate dai vincitori delle varie guerre: di armi e di propaganda. Se l’esercito israeliano, come pare accertato che sia, scandaglia al millimetro gli aiuti al valico di Rafah è perché l’ingresso negli anni di veicoli “umanitari” è stato un canale attraverso cui nella Striscia sono entrati materiali di ogni tipo (dal cemento per costruire la città sotterranea, alle componenti per fabbricarsi i missili costantemente lanciati verso le città israeliane) poi utilizzati nell’efferato attacco del 7 ottobre.
Materiale che, come si vede dall’arsenale ancora a disposizione di Hamas, continua ad entrare. Con la stessa voce con cui si chiede ad Israele di facilitare l’ingresso di aiuti, bisognerebbe, allora, responsabilizzare tutte le parti affinché quei canali restino effettivamente punti neutri da dove far entrare solo cibo, medicine e quanto serve per alleviare le sofferenze della martoriata popolazione palestinese. Questo è ovviamente chiaro alle cancellerie internazionali: un po’ meno parrebbe alle visioni unilaterali delle opinioni pubbliche che decidono arbitrariamente dove fissare l’inizio della circolarità di cui sopra.
Il messaggio, dunque, è chiaro: non possiamo più permetterci di assecondare in modo acritico la guerra distruttiva mossa da Israele, che deve dare sempre più spazio alla diplomazia per uscire da una situazione sempre più in un vicolo cieco. L’unico modo perché ciò succeda è che Benjamin Netanyahu e il suo governo basato sull’alleanza fra Likud e i nazionalisti religiosi antiarabi e omofobi si faccia da parte. Il recente viaggio, non concordato con il premier, del ministro (centrista) del gabinetto di guerra Benny Gantz dalla vicepresidente Usa Kamala Harris e dal premier britannico Rishi Sunak sembra il primo concreto segnale che dimostra quanto il tacito patto interno per cui Netanyahu (anche per assumersi fino in fondo le responsabilità del disastro provocato dalla sua fallimentare politica) avrebbe governato fino al termine della guerra sia definitivamente incrinato. Dato che l’esclusione di Hamas dal futuro dei territori palestinesi è data per certa – solo l’asse Putin-Iran vorrebbe mantenerla in qualche forma, mentre lo stesso Cameron respinge l’idea nelle sue dichiarazioni – il passo indietro di Netanyahu appare ancor più necessario.

Davide Assael