LA FESTA – Rav Della Rocca: Purim, azione o estinzione
«..Se si legge la Meghillat Estèr a ritroso non si esce d’obbligo..» (Mishnà, Meghillà, 2; 1). Qual è il senso di questa norma? Chi legge la Meghillà di Estèr pensando che gli eventi in essa narrati appartengano solo al passato, “a ritroso”, e il miracolo non è dunque rilevante per il presente, non ha adempiuto il suo obbligo.
È un insegnamento particolarmente attuale in questo Purìm, nel quale ci troviamo in un universo dominato dalla confusione e dalla menzogna e il mondo rischia di trasformarsi in una gigantesca mascherata. In una situazione dominata dal capovolgimento della lettura della realtà, nella quale assistiamo basiti ad una progressiva proliferazione di seguaci di Hamàn /Amalèk, che sprizzano antisemitismo gratuito e irrazionale da tutti i pori, la lettura della Meghillà ci sollecita a decifrare il senso dell’enigma universale.
Come per tutti i messaggi biblici, molti possono essere i livelli di lettura del libro di Estèr e in questa operazione di decodificazione possiamo individuare un universo nel quale si giocano grandi e piccoli conflitti. Da quello più noto ed estremo tra il prepotente ministro Hamàn e il leader della comunità ebraica Mordekhai, a quello più subdolo e sottile tra il re Achashveròsh e il popolo ebraico incarnato da Estèr. È una storia, quella di Purìm, nella quale compaiono gli amici, i nemici e i neutrali. In tutte le situazioni della nostra vita agiscono queste forze, dalle relazioni familiari a quelle politiche internazionali. Il conflitto più noto ci presenta un prepotente ministro, simbolo del totalitarismo che non tollera l’esistenza di un’identità particolare, contrapposto a un ebreo che non si assoggetta supinamente al codice sociale vigente, che afferma il proprio diritto alla diversità, che ci insegna a non abbassare la testa e a non piegarci di fronte ai soprusi. Ma c’è anche un re, Achashveròsh, che non vuol lasciarsi coinvolgere nel conflitto, metafora di quel sottile gioco del potere che spesso si alimenta di conflitti altrui. Una neutralità (alias equidistanza) che non prende posizione, che non vuole sporcarsi le mani. Un’inerzia colpevole. Achashveròsh sembra essere il modello di coloro che, anziché agire, si limitano a reagire. Egli firma il decreto, poi si pente, come fosse esitante fra la scelta del bene e quella del male. Quante volte abbiamo sentito di persone che fanno il male perché dicono di «essere costrette» a farlo? Ma fortunatamente in ogni generazione ci sono minoranze che agiscono. Estèr, che all’inizio si rifiuta di agire, passa all’azione e cambia radicalmente il corso della storia. È lei che fa spostare l’ago della bilancia dalla parte del bene. Non è forse anche questa la funzione di Israele tra le nazioni? Anche Estèr è inizialmente tentata di restare neutrale, di cedere al gioco del potere, finché qualcuno le dice: «.…se tu taci in questa circostanza, tu e la casa di tuo padre perirete…» (Meghillàt Estèr, 4; 14). L’alternativa all’azione è l’estinzione. Vi sono situazioni in cui, se non si agisce, la vita perde ogni senso e ogni valore. Quella di Estèr, nella prima fase della sua storia, è la sindrome dell’annullamento di sé per essere come gli altri. È una situazione analoga a quella di Moshè quando, principe d’Egitto, si assuefà alla vita di palazzo, fino a che non gli si risveglia dentro il richiamo del dovere, la voce del suo popolo, a cui si rende conto che il suo destino è indissolubilmente legato.
Benché altri quattro libri biblici portino il nome di Meghillà, quello di Estèr è considerato il Rotolo per antonomasia. Meghillà è un termine che deriva dalla radice
g-l-l (arrotolare, avvolgere), come se durante il suo srotolamento ci venisse gradatamente rivelato ciò che è avvolto e nascosto. L’abilità, la forza di Israele consiste nel saper srotolare il rotolo, dipanare la matassa; ossia, si potrebbe dire, con un paradosso linguistico, che la forza di Israele sta nel saper meghillare estèr, cioè svelare il nascosto, sollevare il velo dell’ascondimento, nel saper leggere dietro la maschera dell’apparenza e restituire un significato autentico a quel volto, che di umano ha solo la parvenza.
Nella Meghillà sembra che anche l’Eterno si nasconda dietro la maschera del “Caso”, la maschera più destabilizzante per i Suoi fedeli. Quella “casualità” – che è tra l’altro la valenza più insidiosa di ciò che rappresenta Amalek – che ci fa sentire abbandonati a un destino cieco, in un mondo dominato dalla sorte e dalla fatalità. Un universo da cui il Creatore appare assente, o tanto ben nascosto che tutto accade come se Egli non esistesse.
La tradizione rabbinica scorge infatti uno stretto rapporto tra il tema del Signore nascosto, che si eclissa, e l’etimologia del nome Estèr, che significa appunto nascosta. Anche la miracolosa salvezza del popolo ebraico che dà origine alla festa di Purìm avviene in modo nascosto e discreto, diversamente da quanto accade per altri miracoli, nei quali il Creatore si manifesta e opera in forma palese, come, ad esempio, nella liberazione degli ebrei dall’Egitto.
La Tradizione ebraica vede nella storia di Purìm la condizione paradigmatica del popolo ebraico, e mostra che sta all’uomo cercare la presenza divina nella storia, anche quando l’oscurità della nostra esistenza si fa più fitta, o quando la disumanità della maschera rischia di stravolgere l’umanità del volto.
Non si può dimenticare, infatti, che nella lingua ebraica, l’etimo g-l-h significa esiliare e rivelare allo stesso tempo. La rivelazione del volto è l’esilio della maschera, di ogni maschera. Che l’Eterno ci faccia uscire presto dal buio alla luce, dall’angoscia alla gioia.
Roberto Della Rocca