LA MOSTRA – Al Meis il ‘900 e gli ebrei:
il secolo del sogno tradito

Liberi dai ghetti, gli ebrei italiani nell’Italia unita (1871) iniziano a trovare il loro posto nella società. Con la fine dell’Ottocento si apre un’epoca di entusiasmo e ottimismo per la minoranza ebraica. In tutti gli ambiti – politica, scienza, cultura – singoli e famiglie si ritagliano e consolidano spazi prima inaccessibili. C’è chi conserva la tradizione, chi si assimila, chi vive in bilico né mancano il dibattito e gli scontri.
A unire è la convinzione di essere tutti italiani a pieno titolo. Una consapevolezza che si infrangerà con l’antisemitismo di stato, con le leggi razziali fasciste, con la Shoah. Uno strappo doloroso, profondo e inaspettato di cui racconta la grande e attesa quarta mostra del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara. Concludendo il percorso nella bimillenaria storia degli ebrei d’Italia, dal 29 marzo 2024 il Meis porterà i visitatori a scoprire il Secolo Breve. “Ebrei nel Novecento italiano” è il titolo della mostra a cura dello storico Mario Toscano e dell’editore e divulgatore scientifico Vittorio Bo. Un’esposizione allestita dall’architetto Antonio Ravalli che offre una ricostruzione dettagliata del XX secolo in Italia attraverso la prospettiva ebraica. Suddiviso in sette sezioni, il percorso illustra – con opere d’arte, fotografie, oggetti, filmati – il complesso itinerario di acquisizione della cittadinanza, poi di perdita e infine di riacquisizione dei diritti. Una sintesi impegnativa, ammettono i curatori, il cui obiettivo è dare “una accurata attenzione alla ricchezza e alla drammaticità di molti momenti cruciali per la storia d’Italia”. Di seguito proponiamo in anteprima esclusiva quattro estratti da altrettanti saggi pubblicati nel catalogo (edito da Sagep) della mostra del Meis sul Novecento. Una piccola finestra su un’esposizione che dà risposte e apre interrogativi sul passato, presente e futuro dell’ebraismo italiano.

ESTER CAPUZZO
Nella classe dirigente

Con l’estensione dell’emancipazione a tutte le comunità ebraiche della penisola dopo l’annessione di Roma e respinta ogni formale disuguaglianza all’interno di una società come quella italiana ormai concepita in senso omologante al di là delle fedi professate, gli ebrei entravano nel corpo della nazione […] al cui interno elaboravano specifiche forme di autorappresentazione. Un gruppo componente la borghesia nazionale, fortemente acculturato, ma allo stesso tempo non dimentico della propria tradizione e della propria specificità, anche religiosa. L’emancipazione riposizionava gli ebrei all’interno della società maggioritaria dal punto di vista culturale, economico, politico con differenze tra una comunità e l’altra e offriva loro nuove occasioni e opportunità di vita. […]
La sfida dell’ingresso in una modernità contrassegnata dall’affermazione dello Stato liberale e dall’adesione agli ideali nazionali e patriottici investiva la dimensione totalizzante dell’ebraismo e rovesciava i criteri dell’appartenenza e il senso dell’identità, con un progressivo sfaldamento dei legami sociali e culturali e con il diradamento graduale dello spirito comunitario, portando gli ebrei a fare propri modelli e valori borghesi, tra cui i viaggi di nozze e la festività del Natale con lo scambio dei doni, stigmatizzati dai rabbini, nel progressivo adeguamento alla società maggioritaria percorsa a sua volta da un sostrato di antisemitismo più volte emergente. L’intervento a favore degli più strati deboli della comunità nei termini di una radicale trasformazione delle loro condizioni economiche, morali e culturali era ritenuto dalla borghesia ebraica un passaggio obbligato non soltanto per una questione di immagine dell’intero gruppo, ma anche per il suo riconoscimento come parte effettiva della nascente élite economica e amministrativa del paese.

Lezione di maglieria nella sede O.R.T di Grugliasco (Torino, 1948) – Archivio Fondazione CDEC, Comunità ebraica di Milano/ Fondo Fotografico Raoul Elia

MONICA MINIATI
Donne all’avanguardia e custodi della tradizione

Le donne ebree brandiscono la penna per riconfigurare i ruoli femminili nella famiglia e nella società. La solerzia con cui contribuiscono all’«opera più santa» (fare figli) è da intendersi come una declinazione al femminile di quella «dinamica migratoria» con cui gli uomini erano usciti dal ghetto per fare ingresso nel contesto nazionale. Si erano mossi come «una sorta di ‘emigranti in patria’» individuando l’ambito lavorativo più facilmente raggiungibile con le competenze di cui disponevano. L’alto livello di istruzione, un bene tutt’altro che condiviso in un’Italia afflitta da un analfabetismo di inquietanti proporzioni, aveva loro consentito di divenire parte integrante di quella borghesia «umanistica» alla guida del processo di modernizzazione della società.
Va però precisato che le ebree, in quanto donne, avevano fatto il loro ingresso nel più ampio contesto nazionale da una porta secondaria, condividendo con le altre italiane il cappio di una «cittadinanza incompiuta». E come non poche delle altre italiane condividevano «il privilegio sociale e familiare della condizione borghese» che «fa[ceva] sentire ancor più il contrasto tra condizionamenti e impulso all’autonomia». Da qui un movimento di emancipazione, ancora agli albori, che si offre alle donne ebree come ambito in cui operare e affermarsi, tanto più che i valori cui si ispirava non erano per loro un terreno inesplorato.
Educazione, istruzione, valore sociale della maternità costituivano un patrimonio concettuale che le ebree custodivano nel loro bagaglio di “emigranti”, determinate a servirsene per aprire a sé stesse e alle altre donne una breccia nel muro che separava vita privata e vita pubblica. Un patrimonio che consentiva loro di partecipare al processo di costruzione delle donne italiane, stabilendo un legame di continuità con la propria tradizione religiosa e culturale, destinato a perdurare anche nel Novecento in cui il protagonismo delle donne ebree si esprimerà prevalentemente fuori dai confini della comunità.

5° elementare della scuola ebraica di Cosala (Fiume 1940 – Archivio Fondazione CDEC, Fondo Stern Giulio)

ANNA FOA
La percezione del fascismo, il consenso al regime e la scelta antifascista

“Perché gli ebrei italiani non avrebbero dovuto essere fascisti? Lo sono stati proprio come gli altri italiani”, disse una volta Tullia Zevi rispondendo ad una domanda che le era stata rivolta. Ma quale è stato il momento in cui il mondo ebraico italiano si è avvicinato all’ideologia fascista, trasformando in un’accesa esaltazione nazionalistica la tutta diversa adesione all’idea di Patria che aveva caratterizzato la sua partecipazione al Risorgimento italiano, pervasa invece di mazzinianesimo e di istanze universalistiche? Si trattò di un brusco cambiamento o di un lento e progressivo mutare di ideologie e mentalità? E si trattò di un percorso diverso da quello intrapreso dal mondo non ebraico, o possiamo individuare in esso caratteristiche simili a quello della maggioranza degli italiani? […] Molti ebrei videro nell’avvento del fascismo il compimento del processo di costruzione della Nazione, per cui avevano versato il loro sangue nella guerra. In questo senso, la percezione iniziale che gli ebrei italiani hanno del fascismo va a congiungersi con quella, di perfezionamento della Nazione, che i fascisti volevano dare di sé. […] Se gli ebrei sono fascisti come gli altri italiani, una percentuale più ampia ne troviamo fra gli antifascisti. In primo luogo, fra gli esiliati, quelli che il regime chiamava spregiativamente “fuorusciti”. […] Ma a trasformare radicalmente la vita degli ebrei, rendendoli da cittadini italiani paria discriminati, furono le leggi del 1938. Anche qui, profonde sono le differenze determinate dal ceto sociale a cui si apparteneva, dalle città in cui si viveva, dal mestiere che si esercitava. Le memorie di quegli ebrei che hanno vissuto le leggi razziste bambini o giovanissimi sottolineano tutte con molta forza il trauma della cacciata dalla scuola. Per quanti riuscirono a emigrare, l’esilio, per lo più negli Stati Uniti o nell’America del Sud, fu un altro trauma, quasi l’universo in cui avevano vissuto si fosse improvvisamente rovesciato. Solo alcuni di loro tornarono in Italia nel dopoguerra, per molti l’offesa subita portò a scindere ogni legame con la patria d’origine.

DAVID BIDUSSA
L’istituzionalizzazione della memoria e i suoi significati

Il “Giorno della Memoria” è interpretato o si presenta, nel panorama culturale pubblico in Italia, intenzionalmente o meno, come una attualizzazione e un rafforzamento del paradigma antifascista, o come un percorso di aggiornamento e di rafforzamento, in un tempo, peraltro, in cui la storiografia ha da anni messo al centro la crisi di quel paradigma.
Nel momento stesso in cui si consolida e si presenta non solo come giornata strutturale del calendario civile italiano, ma anche europeo (il momento definitorio è dato dalla celebrazione del LX anniversario della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio 2005 che si svolge nel terreno del complesso di Auschwitz-Birkenau alla presenza di tutti i leader politici e rappresentativi dei singoli componenti dell’Unione europea) almeno in Italia quella centralità è ridiscussa a partire dalla necessità, già avviata nel 2003, di dare spazio e riconoscimento alla commemorazione dei morti infoibati e alla costruzione della “Giornata del Ricordo” istituita ufficialmente con la legge n. 92 del 30 marzo 2004.

(Nell’immagine, il Talled, scialle da preghiera ebraico, di Leone Leoni, rabbino di Ferrara dal 1928 al 1951 – Meis – Foto di Luca Gavagna)