MEDIO ORIENTE – Bensoussan: «Il 7 ottobre non dipende dall’occupazione»
Lo storico francese vede crescere i sostenitori del totalitarismo in Occidente

«Pensare di poter spazzare via la questione palestinese con gli Accordi di Abramo era cecità politica, e cinismo. A molti piacerebbe pensare che la strage del 7 ottobre abbia un legame diretto con la politica israeliana: è un’idea che rientra nei canoni della ragione occidentale che, per il massacro, ha identificato nell’occupazione dei territori palestinesi una ragione semplice».
Sono parole dello storico francese Georges Bensoussan, tra i più noti studiosi europei di antisemitismo, Shoah e sionismo, nonché responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi e direttore della Revue d’histoire de la Shoah. Intervistato da Alexandre Devecchio per La Tribune Juive, che lo ha interrogato sulle dinamiche di causa-effetto fra la politica israeliana e quanto è avvenuto il 7 ottobre ha continuato: «È così anche se il territorio di Gaza è libero da ogni occupazione da diciannove anni. Come se prima dell’occupazione del 1967 lo Stato d’Israele fosse stato accettato dal mondo arabo. Il riconoscimento della realtà nazionale israeliana da parte dell’Egitto e della Giordania fu il risultato di un equilibrio di forze. La natura di questi accordi evidenzia anche la difficoltà di accettare il fatto nazionale ebraico, per gran parte del mondo arabo-musulmano. Oggi, quando il sovvertimento della realtà è al suo culmine, dobbiamo ricordare che fin dalla sua fondazione lo Stato ebraico si è confrontato con minacce alla sua esistenza che non hanno pari altrove nel mondo».
Ricorda, Bensoussan, che «La soluzione a due Stati’ è sembrata a lungo la più ragionevole, ma è già stata proposta cinque volte e cinque volte rifiutata dalla parte araba: 1937 (piano Peel), 1947 (risoluzione delle Nazioni Unite), 2000 (Camp David), 2001 (Taba) e 2008 (piano Olmert). La nascita dello Stato arabo di Palestina pianificato dalle Nazioni Unite fu impedito tra il 1947 e il 1949 dalla Giordania (con la complicità inglese), che si annesse il territorio palestinese della Cisgiordania. Poi, tra il 1949 e il 1967, lo Stato di Palestina avrebbe dovuto essere proclamato nella Cisgiordania e a Gaza (che erano territori amministrati dall’Egitto), e non c’era presenza israeliana. Ma non fu così, con l’appoggio della Lega Araba. Nel 1949, alla fine della prima guerra arabo-israeliana, tre quarti dei rifugiati palestinesi erano rimasti entro i confini della Palestina mandataria ma furono parcheggiati nei campi profughi (nonostante fossero a casa) e solo la Giordania concesse loro cittadinanza e permesso di lavoro. Né il Libano, né la Siria, né l’Egitto furono d’accordo. Accettare uno Stato palestinese equivarrebbe di fatto al riconoscimento dello Stato di Israele. Ed è per questo che la parte araba ha risposto sempre negativamente a tutte le offerte. Una tragedia, aggravata da un messianesimo ebraico che i padri fondatori del sionismo intendevano, giustamente, mantenere a distanza». Il ragionamento prosegue poi con un’analisi dell’odio antiebraico – e per Bensoussan il 7 ottobre conferma come l’odio verso gli ebrei sia causato da quello che sono e non per quello che fanno – e di come sia impossibile immaginare un ebreo libero su una terra dichiarata musulmana per l’eternità. Né immaginare alcuna autodeterminazione diversa dalla propria, come dimostrato dall’articolo 18 della Carta di Hamas: «La creazione di ‘Israele’ è del tutto illegale e contravviene ai diritti inalienabili del popolo palestinese e va contro la sua volontà e la volontà della ummah».
Conclude lo storico: «Da quasi cinquant’anni le società occidentali sperimentano un’immigrazione di massa dal mondo musulmano, evidenziato dalle grandi manifestazioni anti-israeliane in Europa e negli Stati Uniti. Un certo Islam rigorista, detrattore sia del mondo cristiano che dell’Illuminismo, trova nella lotta contro lo Stato d’Israele un’occasione unica per cristallizzare il risentimento di una parte della gioventù, coinvolta in un progetto totalitario senza comprenderne la posta in gioco».