PESACH – La libertà di essere ebrei

È cosa nota che la festa di Pesach celebra la liberazione degli ebrei dall’Egitto. Meno noto è che la libertà dalla schiavitù egiziana figura nel primo dei Dieci Comandamenti: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù” (Es. 20:2; Deut. 5:6). E nel quarto comandamento, quello sull’osservanza dello Shabbat, è scritto: “Il settimo giorno è Shabbat per il Signore tuo Dio, non potrai fare alcuna opera né tu, né tuo figlio né tua figlia, né il tuo servo né la tua serva (…) in modo che il tuo servo e la tua serva possano riposare come tu stesso, e ti ricorderai che schiavo fosti in terra d’Egitto e il Signore tuo Dio ti fece uscire da là con mano forte e braccio disteso” (Deut. 5:12-15). Numerosi sono i precetti della Torah che traggono la loro motivazione dall’uscita dall’Egitto, o per differenziarsi dai comportamenti e gli usi egiziani o per la consapevolezza che gli ebrei acquisirono vivendo in quel paese (per esempio, la condizione di straniero). Se è chiaro da cosa siamo stati liberati, la domanda che ci si può porre è: Siamo liberi di fare cosa? Liberi di essere chi? Di stare dove? A quest’ultima domanda risponde la Haggadà di Pesach, che proprio all’inizio afferma: “Quest’anno qui (nella diaspora) schiavi, l’anno prossimo liberi (benè chorin) in terra d’Israele”. Una frase che da duemila anni abbiamo recitato ogni anno, finalmente non invano: Israele è l’unico paese al mondo in cui gli ebrei sono liberi di essere ebrei, senza doversi nascondere (per esempio, nascondendo la kippà) e senza doversi giustificare se ci si comporta da ebrei. Alle altre domande, liberi di fare cosa e di essere chi, rispondono i Pirqè Avot (le Massime di Padri, il trattato etico della Mishnà): “Disse rabbi Yehoshua ben Levi: Ogni giorno una voce celeste esce dal Monte Chorev (il Sinai) e proclama il versetto della Torah che dice: ‘Le Tavole (della Legge) sono opera di Dio, e ciò che è scritto è scritto da Dio, scolpito (charut) sulle Tavole’ (Es. 32:16): non leggere ‘charut’ bensì ‘cherut’ (libertà), perché non è veramente libero (ben chorin) se non colui che si occupa di Torah” (cap. 6:2). Questa massima dei Pirqè Avot si basa sulla possibilità della Torah di essere letta in diversi modi, grazie al fatto che il testo ebraico non è vocalizzato. Non si vuole sostituire un significato all’altro né eliminare quello letterale, ma solo aggiungere una dimensione ulteriore al senso del versetto. Vediamo quindi che per i Maestri della Mishnà la libertà non è incondizionata e illimitata, ma è vincolata dall’osservanza della legge. Da una parte solo chi vive secondo una legge è libero; dall’altra parte, però, tutti i numerosi precetti della Torah sembrano scolpiti nei nostri cuori e non pare che ci lascino molti margini di libertà. Alcuni pensano che lo Shabbat sia una giornata monotona e noiosa, non potendo andare ovunque vogliano o fare qualsiasi cosa: si sentono menomati nella propria libertà. Altri, all’opposto, accolgono lo Shabbat con attesa e gioia, liberi finalmente dal lavoro e dalle preoccupazioni quotidiane. Quando un servo, nell’antichità, voleva rimanere a servizio di un padrone, invece che tornare libero dopo sei anni di lavoro come previsto dalla legge, lo si avvicinava allo stipite (mezuzà) della porta egli si bucava l’orecchio. Per quale motivo? Spiega Rashì: Un uomo che presso il Monte Sinai ha sentito dal Signore con le sue orecchie che gli ebrei sono i Suoi servi, e non servi di servi, e, nonostante ciò, vuole continuare a rimanere in condizione di schiavitù presso altri uomini, gli venga bucato l’orecchio come segno di riprovazione morale per aver disdegnato la libertà (Es. 21:1-6). È ovvio che in una società retta dalla giustizia ci debba essere libertà di pensiero, anche perché solo Colui che è Uno può leggere nella mente delle persone. È altrettanto giusto che ci debba essere libertà di espressione. Ma quando in nome della libertà di espressione si toglie ad altri la stessa libertà di esprimere la propria opinione, allora la prima non è più una forma di libertà ma di prevaricazione. E se le parole di qualcuno costituiscono un’offesa verso altri, allora queste parole non sono più legittime. Qualora quanto detto da qualcuno istiga e induce altri a commettere un reato, non può che essere vietato. Come commenta Rav Yoseph Colombo, “la vera libertà può aversi nell’ambito della legge, come ubbidienza e consapevolezza razionale della legge anziché come arbitrio e licenza” (Pirqè Avot, Carucci editore, 1977, p. 64, n. 2).

Rav Gianfranco Di Segni