7 OTTOBRE – Angelica Calò Livnè: la parola più triste

La parola Shchol non esiste in italiano. Gli orfani sono coloro che hanno perso i genitori, mentre Shchol è chi ha perso un figlio. «Il carattere doloroso» e «innaturale» ha «determinato già in passato una sorta di tabuizzazione della parola che dovrebbe designare chi lo ha vissuto e che manca in molte altre lingue», spiega l’Accademia della Crusca.
Dal 7 ottobre Israele vive un lungo, spossante, insopportabile Shchol. Genitori raccontano la storia di figlie uccise barbaramente al Nova festival. Giovani mogli descrivono l’incontro del loro sposo con il figlio appena nato poco prima di tornare a combattere la battaglia dalla quale non sarebbe più tornato. Amici, compagni dei movimenti giovanili, colleghi di lavoro, zii, nonni raccontano ogni giorno, dalla mattina alla sera, alla radio, in televisione, sui giornali e sui social le caratteristiche, i sogni, i pregi, i canti, i cibi e i libri preferiti, di chi non c’è più. Di coloro a cui è stata letteralmente rubata la vita. Ascoltiamo in silenzio e ingoiamo a forza tutto questo dolore, questa ingiustizia e le spalle si fanno ogni giorno più pesanti, più dolenti, perché tutti i soldati di Israele sono nostri figli! I giovani che danzavano ignari al Nova festival erano nostri figli. Sono nostri figli tutti gli ostaggi dispersi negli antri bui dei tunnel di Gaza o in qualche casa rimasta in piedi. Sono tutti figli dello stesso destino, della stessa speranza, delle stesse domande che continuiamo a porci da 4000 anni: perché questo odio? Perché questo accanimento, questa insofferenza nei confronti del nostro essere, della nostra presenza? Perché proprio noi che non siamo un popolo di guerrafondai, di cacciatori o di mercenari? Perché siamo costretti a combattere? A difendere le nostre case per non soccombere? Ad Matai? Fino a quando? Se l’è chiesto il Re Davide quando scrisse i Salmi, se lo sono chiesto Rabbi Akiva e Rabbi Shimon Bar Yochai al tempo dei Romani, se l’è chiesto Mordechai Anilevich nel Ghetto di Varsavia mentre organizzava la rivolta, se lo sono chiesti decine e centinaia di persone nascosti negli armadi, sotto al letto o nella soffitta mentre fuori infierivano i feroci e inumani terroristi di Hamas.
E noi dobbiamo avere la pazienza di ascoltare e contenere la tragedia di queste famiglie Shchol, per dar loro l’energia per riprendersi, per dare a questo dolore collettivo la possibilità di autolenirsi e trasformarsi in forza trainante. Per sollevare questo popolo che conosce la disgrazia, ma sa sempre con saggezza e fede, risalire la china.

Angelica Edna Calò Livnè