LA RIFLESSIONE – Rav Alberto Moshe Somekh: Alla fine di Pesach

«Non uno solo si è levato contro di noi per sterminarci, bensì in ogni generazione qualcuno cerca di sterminarci: ma il S.B. ci salva dalle loro mani». Si narra di un re che si era adirato con suo figlio primogenito e giurò di punirlo scagliandogli addosso una grossa pietra. Ma poi se ne pentì: una volta morto, chi avrebbe ereditato il suo trono? Cosa fece allora? Sgretolò la pietra in tanti minuscoli frantumi e li lanciò contro il figlio colpevole a uno a uno. Così non gli provocò alcun danno, senza tuttavia venir meno al proprio giuramento (Midrash Shocher Tov a Tehillim 6, 2). «Molte sono le sofferenze del giusto» (Tehillim 34, 20): il S.B. non ci ha mandato tutte le punizioni insieme, perché non saremmo stati in grado di reggerle.
Esistono passi della Haggadah di Pessach che alludono con chiarezza a un nuovo esilio, posteriore a quello egiziano. Si pensi all’apertura del Magghid, allorché invitiamo i poveri a partecipare alla nostra mensa frugale («questo è il pane dell’afflizione…») con la giustificazione e l’auspicio che «quest’anno siamo qui schiavi, ma l’anno prossimo saremo in Terra d’Israel liberi». O al breve resoconto del Seder convocato a Benè Beraq alla vigilia della rivolta di Bar Kochbà alla presenza di alcuni fra i più importanti Maestri dell’epoca. La composizione della Haggadah, che risale più o meno allo stesso tempo, è in realtà la denuncia di una nuova oppressione. Quei medesimi Maestri avranno voluto anzitutto rispondere a una domanda contingente: che senso ha rievocare la liberazione dall’Egitto se ad essa sono seguite altre persecuzioni, inclusa quella dalla quale non ci siamo tuttora affrancati? Ma la problematica è più profonda. Il Midrash spiega che la permanenza in Egitto durò circa la metà degli anni originariamente previsti: 210 invece dei 400 (o 430, secondo Shemot 12, 40-41), di cui D. aveva parlato ad Avraham (Bereshit 15, 13; Meghillah 9a e Rashì ad loc.). Svariate spiegazioni sono state date a proposito di questa riduzione. Una di queste afferma che gli anni mancanti sarebbero stati compensati dagli esili successivi (cfr. Bereshit Rabbà 44, 21; Nachmanide a Bereshit 15, 12). Ecco che anch’essi dovevano trovare espressione nel Seder.
Il numero quattro ricorre più volte nel corso della serata, a cominciare dai quattro bicchieri di vino. Secondo R. Levi nel Talmud (Yerushalmì Pessachim, 10, 1; 37b; Bereshit Rabbà 88, 5) essi ricordano proprio i «quattro regni» che dopo l’Egitto avrebbero asservito Israel. Un’interessante spiegazione basata sul valore numerico delle lettere parte dall’assunto che la schiavitù egiziana durò effettivamente solo 86 anni, a partire dalla nascita di Miriam sorella di Moshe (Seder ‘Olam). 86 è la ghematriyà del Nome Eloqim, la Giustizia Divina, ma anche quella di kos (“bicchiere”). 86 x 5 = 430 è a sua volta il valore di nefesh (“anima”). Per riparare ai guasti della nostra anima ci sarebbero voluti altri quattro periodi di 86 anni ciascuno, ma la Misericordia Divina ce li risparmiò. O meglio li trasformò nei quattro esili successivi. Per ringraziare di questo stemperamento durante il Seder beviamo quattro bicchieri, mentre il quinto viene lasciato illibato, in quanto lo abbiamo già “bevuto” in Egitto (cfr. Ekhah 4, 21; M. Glazerson, “Ha-Mistorin she-ba-Haggadah”, p. 49).
Ritroviamo analoga sequela nelle cinque espressioni di liberazione alla conclusione del Magghid. «Perciò dobbiamo ringraziare Colui che fece ai nostri Padri e a noi tutti questi miracoli: ci ha tratto dalla schiavitù alla libertà (allusione all’Egitto), dall’angoscia alla gioia (la parola yagon ha il valore di 70, pari agli anni dell’esilio babilonese: cfr. Ekhah 1, 5), dal lutto al giorno di festa (sono termini tratti dalla Meghillat Ester 4, 2 e 9, 19 e richiamano la dominazione persiana), dal buio a una grande luce» (riferito a Chanukkah e alla liberazione dai Greci) e infine la Galut presente, che terminerà nella Gheullah definitiva al più presto (Ma’adannè Shemuel, II, p. 32). Anche nel Hallel ha-Gadol (Tehillim 135) che si canta al termine del Seder ricorrono quattro espressioni di ringraziamento. Le prime tre sono all’inizio del Salmo, la quarta all’ultimo versetto: «Ringraziate il D. del cielo» (R. Bachyè a Wayqrà 11, 4), allorché Egli sarà infine accettato da tutti i popoli sotto la volta celeste.
Riprendendo un noto Midrash (Wayqrà Rabbà 13, 5) R. Eli’ezer Nachman Foà (Reggio Emilia, sec. XVIII) si domanda nel suo commento alla Haggadah perché la Mishnah, dopo aver nominato cinque diverse varietà di vegetali mangiando i quali si esce d’obbligo dal precetto dell’erba amara (Pessachim 2, 6), insiste poi solo sulla specie chiamata chazeret nel descrivere le fasi del Seder (10, 3) al posto del maror propriamente detto, che pure ha lo stesso nome adoperato nella Torah. Egli spiega a sua volta che le cinque erbe corrispondono a loro volta ai cinque esili. Chazeret allude all’esilio presente, che sarà l’ultimo. Terminato questo il Regno tornerà (chazar) al popolo ebraico!
Ritengo di poter spiegare anche i «quattro figli» come altrettante reazioni alle differenti esperienze dell’esilio. Il Chakham (“saggio”) risponde all’esilio babilonese. Uno dei libri biblici più tardi e forse meno studiati è intitolato a Daniel, descritto come uno dei “rampolli che non avevano alcun difetto, di bell’aspetto, versati in ogni sapienza” (bekhol chokhmah; 1, 4) scelti per essere educati alla corte del re di Babilonia. Fu questa, nonostante tutto, un’epoca di grande creatività culturale e spirituale nel nostro popolo. Il contatto con l’atmosfera evoluta dei babilonesi permise ai nostri Padri di porre le fondamenta dell’ebraismo diasporico che consentì la nostra sopravvivenza per secoli. In Babilonia nacquero istituzioni fondamentali come il Bet ha-Kenesset. Alla Babilonia resta legata anche nel nome l’edizione del Talmud su cui si incentra tutta la nostra dottrina.
Il Rashà’ (“ribelle”) richiama invece alla mente la diaspora persiana. Il Talmud dice che la persecuzione di Haman fu la punizione per il fatto che gli Ebrei parteciparono al banchetto di un rashà’ appunto, il re Achashwerosh che si era illuso di fermare la ricostruzione del Tempio di Yerushalaim (Meghillah 12a). In un primo momento gli Ebrei di quella generazione si erano a loro volta illusi che la compiacenza verso il regime straniero fosse il modo più proficuo e sicuro per affrontare la convivenza: “guai al rashà’ e guai a chi gli sta vicino” (Rashì a Bemidbar 16, 1)!
Il Tam (“semplice, ingenuo”, ma anche “integro”) non si pone troppe domande: corrisponde al confronto con la cultura greca. La temimut rappresenta la fede ebraica in un D. personale e alla Sua Provvidenza che si oppone tanto all’idolatria che alla filosofia. Trattando le norme sul divieto della ‘Avodah Zarah, Maimonide scrive chiaramente che certe pratiche sono proibite dalla Torah proprio in funzione della loro assurdità, come ben sanno «i sapienti e coloro che sono dotati di sapienza integra (temimè ha-da’at)… perciò la Torah avverte: ‘integro (tamim) sii con H. tuo D.’» (Devarim 18, 13; Hilkhot ‘Avodah Zarah 11, 16). Il secondo aspetto è invece specialmente sviluppato nella letteratura chassidica. Nei Liqqutè Moharan R. Nachman di Bratslav si sofferma sul fatto che particolarmente le nostre feste, commemorando interventi miracolosi da parte della Divinità, rafforzano la nostra fiducia in una Volontà superiore in grado di sorpassare il rigido determinismo delle leggi naturali secondo la concezione dei filosofi. La filosofia, scrive Levinas, è «opposta alla sapienza che sa tutto senza farne la prova» (“Quattro letture talmudiche”, Melangolo, p. 73). Questa è temimut.
Ma ancora una volta il quarto figlio è il più problematico e perciò il più interessante. Esiste davvero qualcuno che non sia in grado di formulare neppure la domanda del Tam: “Che cosa è questo?” Colui che non sa fare domande sa parlare certamente come gli altri! “Non sa fare domande” significa piuttosto che l’ultimo figlio è talmente digiuno dall’ebraismo da non sapere neanche cosa domandare. Questo è il prodotto dell’esilio presente, un esilio spersonalizzante. Per la maggior parte i nostri fratelli assimilati non sono dei ribelli. Il Talmud adopera un’espressione efficace: «sono come bambini presi prigionieri dai non ebrei» (Shabbat 68b) ed educati al di fuori della Torah e delle Mitzwot. Non ne capiscono l’importanza per ragioni in gran parte indipendenti dalla loro volontà. Per questo non vanno condannati. Al contrario, occorre avvicinarli e spiegare loro con pazienza la verità delle cose. Se l’esilio presente perdura è forse dovuto al fatto che non abbiamo saputo operare con sufficiente incisività. Ma più l’esilio si prolunga, più gli effetti negativi si moltiplicano. Dal canto suo «il S.B. già prevede la fine». Se le ideologie con cui molti di questi “bambini” hanno sostituito l’impegno ebraico sono morte da tempo, i fatti più recenti hanno segnato inequivocabilmente la loro definitiva sepoltura. Quanto a chi è in grado di farlo, cadute tutte le barriere, è il momento di insegnare Torah, senza se e senza ma.

Rav Alberto Moshe Somekh