L’APPUNTO – Alberto Heimler: l’antisionismo è violenza e la pace ancora lontana
Il sionismo è il movimento indipendentista ebraico nato alla fine dell’Ottocento e volto a creare una patria ebraica in Palestina. Pertanto, con la creazione dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948 il sionismo ha assolto la sua missione. È come il Risorgimento italiano, concluso con la proclamazione dell’unità d’Italia il 17 marzo 1861. Dirsi antisionisti oggi equivale auspicare la distruzione dello Stato d’Israele. È ovvio che non c’è dialogo possibile tra uno Stato e chi ne auspica la distruzione. Per quanto riguarda l’Italia, anche la Lega dei primi anni aveva obiettivi secessionisti, ma l’esigenza proveniva dall’interno e veniva perseguita in maniera pacifica. Qui invece la distruzione dello Stato è auspicata dall’esterno contro la volontà dei cittadini di Israele, inclusa peraltro la maggioranza degli arabi israeliani, e viene perseguita con la violenza. Da questo punto di vista è una minaccia esistenziale che, quando espressa da uno Stato o da gruppi armati, equivale a una dichiarazione di guerra a cui già di per sé sarebbe legittimo rispondere. A maggior ragione la risposta bellica è giustificata se queste dichiarazioni minacciose si accompagnano ad azioni aggressive e violente che, nel caso di Hamas, hanno raggiunto il culmine il 7 ottobre, ma andavano avanti quasi giornalmente da quando Hamas ha conquistato il potere a Gaza con la forza nel 2006.
Israele, che dalla Striscia di Gaza si era ritirato nel 2005, non avrebbe avviato la guerra di Gaza senza l’invasione di Hamas del 7 ottobre, un’invasione portata avanti da un esercito di oltre 5.000 miliziani entrati in Israele con l’obiettivo di uccidere civili e prendere ostaggi. Inoltre, Hamas sperava che gli arabi israeliani e i palestinesi dei territori occupati si sarebbero uniti all’attacco rivoltandosi contro lo Stato d’Israele e che il Libano e la Siria avrebbero attaccato Israele dal nord. Per fortuna di Israele la reazione dei paesi arabi confinanti è stata relativamente modesta e gli arabi di Israele non si sono associati al conflitto. Anzi, la Giordania è intervenuta di recente a fianco di Israele nell’abbattimento dei droni e dei missili iraniani, una novità importante nella storia della regione. La questione dei territori occupati è più complicata, essendovi là un conflitto latente non strettamente collegato a quanto avviene a Gaza.
Questa assenza di appoggio dell’azione di Hamas da parte degli arabi israeliani e dei palestinesi dei territori occupati dovrebbe porre come minimo qualche dubbio a coloro che protestano contro Israele nelle piazze e nelle università e ne auspicano la distruzione (Palestina libera dal fiume al mare).
Hamas, pur essendo un gruppo terroristico, governa un paese. Dati i numeri coinvolti, l’attacco del 7 ottobre è stata un’azione militare a cui Israele non poteva non rispondere. Purtroppo, l’aviazione, che in passato è stata la carta vincente di Israele, è poco adatta a questo conflitto. Hamas ha infatti concentrato le sue forze in zone fittamente popolate e sottoterra. Proprio per questo è una guerra difficile da combattere, dura a lungo e provoca tante morti innocenti. Tuttavia, nessuno dei leader politici di Israele, neanche Yair Lapid, l’unico oggi all’opposizione, propone strategie alternative. Di conseguenza, l’unica possibilità per la cessazione delle ostilità è che Hamas restituisca tutti gli ostaggi e si arrenda. Se non lo fa Israele andrà avanti fino a che la resa sarà l’unica opzione disponibile.
Ci sono però delle narrazioni che vanno confutate. La prima riguarda Gaza. Tutti sanno che nel 2005 Israele ha lasciato Gaza che aveva conquistato nel 1967 con la guerra dei Sei giorni, peraltro anch’essa non iniziata da Israele, trasferendone l’amministrazione all’Autorità nazionale palestinese. Il progetto era chiaro. Se il ritiro dalla striscia promosso dal primo ministro di Israele Ariel Sharon avesse avuto successo, nel senso dello sviluppo di una pace duratura, una soluzione analoga sarebbe stata avviata anche nei territori occupati della sponda occidentale del Giordano (West Bank). O per lo meno sarebbe stato molto difficile non farlo. Purtroppo, nel 2005 Hamas ha preso il potere a Gaza e ha creato uno Stato il cui obiettivo dichiarato e perseguito negli anni è la distruzione di Israele a qualsiasi costo. Il fatto quindi che Gaza è stata isolata da Israele (anche se prima del 7 ottobre quasi 20.000 abitanti di Gaza passavano il confine tutti i giorni per lavorare in Israele) era per difendersi da un nemico acerrimo, non per una volontà di annientamento, come molti purtroppo sostengono.
Il progetto avviato da Sharon di dare responsabilità di governo ai palestinesi di Gaza è quindi fallito. Per riprenderlo non basta auspicare che i due popoli si organizzino in due Stati. Occorre anche che questi Stati vivano in pace tra loro. Questa è la sfida maggiore da superare. Data l’esperienza passata, Israele è molto scettica. Ed è qui che la politica (soprattutto israeliana e palestinese) deve trovare una soluzione. La comunità internazionale può certo aiutare, ma non basta dire due popoli due Stati. La pace richiede molto di più. Ma per questo dobbiamo attendere.
La seconda questione è la cosiddetta catastrofe (Nabka), ossia il fatto che alla conclusione della guerra lanciata dagli Stati arabi contro il neonato Stato d’Israele (1948-49) circa 700.000 arabi, alcuni volontariamente e altri no, hanno lasciato le loro case e le loro terre in Israele rifugiandosi nei paesi vicini. Se ne parla ancora oggi in articoli e servizi televisivi per giustificare l’odio di Hamas verso Israele. Non è così semplice. Per lo meno nei primi mesi dopo il 1948 i palestinesi che avevano abbandonato le loro case sarebbero stati liberi di tornare in Israele come alcuni hanno poi fatto, integrandosi in un paese in cui circa il 20% della popolazione è costituito da arabi, oggi, israeliani. Coloro che invece sono rimasti profughi avrebbero potuto essere integrati nei paesi dove si erano rifugiati.
Vorrei ricordare al riguardo che l’esperienza palestinese non è unica. Per esempio, la mia famiglia è di Fiume (oggi Rijeka, in Croazia) e più o meno negli stessi anni anche noi abbiamo dovuto lasciare le nostre amate terre, in parte volontariamente in parte cacciati dalle forze jugoslave (esattamente come nel caso dei palestinesi), rifugiandoci in Italia. Arrivati in Italia, non siamo stati messi in campi profughi e ci siamo integrati pienamente col resto della popolazione. Fossimo stati rifugiati palestinesi, anche i miei nipoti, quasi 80 anni dopo, sarebbero ancora profughi. In altre parole, la responsabilità dell’esistenza dei campi profughi palestinesi in Libano, Siria e Giordania non è di Israele, ma dei paesi che non hanno voluto accogliere i loro fratelli e integrarli nelle loro società, peraltro uguali a loro per lingua, cultura e religione. Solo per inciso i profughi Giuliano-Dalmati, oggi pienamente integrati in Italia, anche se pieni di nostalgia per le loro terre perdute, non hanno mai promosso azioni terroristiche contro la Jugoslavia (oggi Croazia e Slovenia), auspicato la loro riconquista o suggerito all’Italia di non riconoscere quegli Stati.
Alberto Heimler, economista