SHIRIM – «Jean Santeuil», Marcel Proust

…Jean pensava a ciò che è un luogo della terra, un luogo della terra dove si passa, ma che resta là, ai piedi della sua roccia o sulla riva del suo torrente, che non ha mai visto nulla del resto del mondo. È là, vi siamo in questo momento, vi si vive, o, meglio, sembra che dovremmo essere morti sotto questa digitale che non ha mai visto nulla del resto del mondo[…]Oltre, sono luoghi altri, ugualmente separati da tutto, da tutto ciò che i loro alberi non vedranno mai al di là del loro orizzonte, dove la notte non scende sulle stesse cose, ma su altre che un pensiero della natura sembra aver fermato là, nell’ignoranza di tutto il resto, mostrando come una specie di volto, assumendo come l’espressione di una persona, un viso suo, al quale qualcuno si abituerà fino a sentire per esso un’amicizia simile a quella che suscita un volto umano, forse di più, che altri vedranno per una volta come un viso straniero che non può seguirli quando vanno via, che non muove lo sguardo, che resta là ad aspettare, la sera, la loro sera come nessun altro ha mai avuto, l’ombra gelata di una montagna o la brezza del mare […]
Il testo è tratto dal romanzo Jean Santeuil di Marcel Proust (Parigi, 10 luglio 1871 – 18 novembre 1922) nella traduzione di Salvatore Santorelli.
Accade a volte, nel vagare nel mondo, che luoghi innominati conquistino, poco a poco o d’improvviso, una fisionomia definita che li fa assomigliare, come per un incantamento, a un profilo umano. È quanto scopre il giovane Jean, in una passeggiata in compagnia dell’amico Henri, in cerca di erbe selvatiche.
L’incantesimo è tanto più meraviglioso quando a incarnarlo non è una città ma un luogo di passaggio, il limitare d’un bosco, un crocicchio semi sepolto, un remoto passo montano, un incolto ove da tempo gli uomini vengono e vanno assortamente, immemori. Quel luogo assume, a un tratto, un vago volto, un corpo. Un profilo che sentirà degli anni gli inverni, le acque, le lune, i mattini. Ma serberà pure una fissità di stella, una dolcezza, un’asperità di forme che fermerà in noi l’immagine originaria. Avrà, quel luogo una terra argillosa, zolle aride e pietrisco, ove bisce e biacchi dileguano lesti nei giorni d’estate. Vi nasceranno rupestri arabette, more di rovo, l’iperico ircino brillerà di vivo oro. Sarà, forse, un bosco di felci e farfaracci genuflessi nell’ombra della fonte magra, come in preghiera, là dove il vaporare asperge le rocce d’un tèpido velo, e la terra, asfissiata, s’apre già rorida, tumefatta. Svolge, allora, la ginestra, il solare germoglio, l’albero cavo trattiene un’acqua segreta. La troverà la volpe nei meriggi riarsi, incontrando, nel bere, il simile volto di preda, gli occhi panici, profondissimi, stridendo, quasi che le vita le sfuggisse, per terrore, dal petto stremato.
E quel luogo immobile e animato rimane corporeo e intatto, come fermo, là dove lo abbiamo veduto e scordato, ove lo ritroveremo, poi, tra un istante o tra molti anni, privo sempre del fardello dell’essere, del sapere dell’orizzonte, dei giochi tra i canneti di là dalle prossime fronde.
Di lì passò, un giorno, il viver nostro, come per caso, trovandosi, ignoto, a un passo dal venefico fiore che attrae e conduce a sé arborei spiriti silvani. Sigilla così, la digitale, i fatali calici. S’erode il pietrisco tra inaudite grida, mormora l’acqua, torbida, a sera.
L’esser vivi o morti, l’aver pensato a quella parte di mondo nell’attimo in cui la notte scende sui luoghi inesplorati, non cambierà della corrente il corso.
L’animo del poeta trattiene suoni, luoghi. Contiene la radura segreta, la fatale sera d’acqua scura.
Sa che la notte scende sulle cose conosciute e inconosciute. Che non vedranno, gli alberi del casolare, i fratelli arsi, nel blu dell’ignea steppa.
Shirim è a cura di Mariateresa Amabile, poetessa e docente di Diritti Antichi all’Università di Salerno