L’ANNIVERSARIO – Trent’anni senza il Rebbe, ma la sua lezione è viva

Settimo leader della dinastia Chabad Lubavitch, celebrato dai suoi discepoli come “il Rebbe” per lo slancio dato all’ebraismo post-Shoah, Menachem Mendel Schneerson è considerato uno dei rabbini e pensatori ebrei più influenti del Novecento. Nato nel 1902 a Nikolaev, nell’allora Russia zarista, il Rebbe è morto a New York nel 1994, nel giorno 3 del mese ebraico di Tammuz. Cioè oggi. Trent’anni dopo la sua eredità resta viva anche in Italia. Qui la rete di shlichim (“emissari”) del movimento chassidico opera ininterrottamente dal 1958, con sedi in varie città.
Uno dei protagonisti di questo impegno a Roma è rav Menachem Lazar, figura di riferimento della sezione Chabad nell’area di Piazza Bologna. «Ho avuto la fortuna di incontrarlo più volte quando ero un bambino, tra gli 8 e i 12 anni. Alcuni sono ricordi più definiti, altri meno, ma sono tutti importanti nel mio bagaglio formativo. Come quando, nel giorno del mio compleanno, con una benedizione mi augurò di avere successo nella vita», spiega Lazar. «Per noi Chabad il Rebbe non è mai stato solo una persona fisica. Il suo lascito è un patrimonio spirituale immenso, il motore che ci dà la forza di andare avanti, di dare continuità a quello slancio. Il Rebbe ha creato una sorta di “esercito” nelle sue idee e nei suoi valori. È uno dei suoi grandi meriti. D’altronde gli uomini non li cambi affidandogli degli oggetti, ma degli insegnamenti, a partire dalla fedeltà ebraica allo studio della Torah». Per il Rebbe, racconta Lazar, «ogni azione, anche piccola, aveva valore; un’azione in sé è già lo scopo». Altro messaggio da custodire «è l’idea che non esistano differenze tra una persona e l’altra: di ognuno dobbiamo cogliere l’essenza, andare a fondo della sua anima senza fermarci alla superficie».
«Il Rebbe ha sempre cercato di garantire che ogni singolo ebreo potesse avere un luogo in cui sentirsi come a casa, un luogo in cui prendere consapevolezza di ciò che è e in cui crescere nella sua identità e responsabilità. Non a caso i nostri centri si chiamano Beit Chabad, la Casa dei Chabad», sottolinea il responsabile della missione toscana Levi Wolvovsky. Nato a Brooklyn, a Firenze da 12 anni insieme alla moglie Sonia, anche lui ha avuto l’opportunità di incontrare il Rebbe in gioventù, nella casa newyorkese di Shneerson gremita di allievi. «Ricordo l’ambiente che lo circondava, l’intensità di quell’esperienza. Si toccava con mano l’importanza del suo compito», racconta Wolvovsky. «Noi allievi cerchiamo di continuare quell’opera, dando forza all’ebraismo in prima istanza e poi, in senso più universalistico, portando luce al mondo intero». In questo senso «Beit Chabad è un laboratorio non solo teorico ma di vita: tanta gente ci cerca, ha sete di ebraismo, vuole coltivarlo». In onore del Rebbe, a trent’anni dalla scomparsa, Wolvovksy ha organizzato a fine giugno un concerto per esplorarne il messaggio attraverso alcuni brani musicali. «Abbiamo imparato tanto», spiega l’emissario. «Ma il segno del Rebbe è ovunque: nei video, nei libri. Vive ancora con noi».
Di recente la casa editrice Giuntina ha dato alle stampe Lezioni di Torà, un libro antologico con alcuni discorsi del Rebbe per lo Shabbat adattati dall’ex rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth Jonathan Sacks (1948-2020). Secondo Sacks, dalle riflessioni del Rebbe emergerebbe la convinzione «che ognuno di noi possa lasciarsi alle spalle la confusione attuale» per seguire «lo splendore senza tempo della Torah, la luce infinita».

a.s.