MUSICA – Lotoro: Come a Massa e Meriba

Tanti anni fa a Rishon Le-Tzion (Israele) incontrai il musicista ebreo ceco Uri Spitzer che nel dicembre 1939, insieme a 4.000 ebrei cechi, austriaci e del corridoio di Danzica ottenne dall’autorità tedesca il permesso di espatrio a Bratislava con la speranza di guadagnare la Palestina mandataria britannica via Danubio, Mar Nero, Mediterraneo; furono alloggiati presso lo Slobodarna Hostel controllato dal corpo paramilitare fascista slovacco Hlinkova garda; nell’ostello, Uri Spitzer e altri crearono l’omonimo inno, nell’agosto 1940 furono imbarcati su quattro cargo diretti a Tulcea e ridistribuiti su navi che presero il largo raggiungendo Haifa nel novembre 1940.
La prima volta che incontrai Uri, stentava a ricordare i primi due versi dell’inno, era bloccato ma la seconda volta che incontrai Uri, circa un anno dopo, era più rilassato; perciò stappai una bottiglia di vino del Golan che gli avevo portato e gli chiesi a bruciapelo dell’inno Slobodarna Hostel che mi cantò tutto d’un fiato, senza un attimo di esitazione, con le strofe complete e il ritornello.
A Gerusalemme mi recai due volte a German Colony per incontrare Edith Steiner Kraus (foto), la pianista ebrea austriaca pupilla del grande Viktor Ullmann, del quale eseguì a Theresienstadt la prima assoluta della VI. Klaviersonate, replicandola sino a 11 volte; la prima volta fui io a essere interdetto, c’era la Storia dinanzi a me ma di essa guardavo il muro anziché il ponte.
Tre anni dopo incontrai nuovamente Edith, aveva perso la vista ed era assistita da una badante eritrea; con occhi dell’anima che ormai guardavano altrove, mi raccontò le storie musicali più belle accadute a Theresienstadt e alla fine le strinsi forte le mani ossute e affusolate.
Mani di pianisti che si riconobbero l’una nell’altra; Edith morì centenaria nel settembre 2013.
Cos’hanno in comune queste storie, oltre al fatto che trattasi di sopravvissuti?
La seconda volta.
Dal Libro del Deuteronomio alla seconda piccola Pasqua che cade un mese dopo la prima (Pesach shenì) al secondo mese di Adar nell’anno embolismico sino alla piccola Amidà (Magen Avot) ripetuta la sera del venerdì per chi si attarda nelle sinagoghe dell’Est Europa, il pensiero ebraico è impregnato del concetto di recupero, compensazione, possibilità concessa al ritardatario, correzione per chi sbaglia la prima volta; bisogna sempre riprovarci, ritentare perché, come a Massa e Meriba, buona parte di queste musiche sono sgorgate come fontane dal cervello e dal cuore dei sopravvissuti dopo aver nuovamente battuto, martellato la parte più rocciosa dei loro ricordi.
Il segreto del ricercatore che si addentra nella foresta amazzonica della Memoria, che sia una canzone o uno spartito per violino o un ultimo sorriso, risiede nella seconda volta.
Qualcuno pensava in buona fede che la Memoria fosse simile a un gigantesco regalo impacchettato dalla Storia da recapitare al genere umano, un contenitore pieno di cose belle o brutte ma comunque da conservare gelosamente nelle abitazioni reali o nei mondi immaginari; qualcosa a metà strada tra l’album dei ricordi di famiglia e il vecchio e scordato pianoforte a muro che nessuno suona più in salotto ed è ormai pieno di ninnoli e soprammobili ma è cosa buona e giusta tenerlo in casa e spolverarlo ogni tanto perché su quella tastiera ha suonato lo zio Gustavo tanti decenni fa.
Al nostro brusco risveglio abbiamo realizzato di essere letteralmente seduti su un vulcano, convivevamo con esso e tuttavia sulle sue superfici abbiamo costruito le villette e piantato persino i fiori; e se il vulcano ogni tanto ci serviva una spruzzatina di lava lo scambiavamo persino per uno spettacolo pirotecnico con tanto di fotografie e coloratissime Stories da caricare sui social.
Quanto ci eravamo sbagliati…
Quel 7 ottobre 2023 il vulcano ci ha mangiati, ha pasteggiato e bevuto con le nostre teste e il nostro sangue mentre le truppe cammellate sparse per ogni continente festeggiavano e latravano contro di noi; e oggi ci poniamo atrocemente il dubbio se, come guardiani del Forte Memoria alla maniera del vecchio West, alcuni di noi siano stati svegli come sentinelle che si chiamano l’un l’altra ogni quarto d’ora per tutta la notte o ci siano limitati a fare i piantoni del Forte, più attenti a lustrare le maniglie del portone d’ingresso che a sorvegliare dalla torretta con fucile e colpo in canna.
Questa guerra, anzi queste due guerre finiranno anche se il fiume putrido di falsificazione dei fatti nei riguardi di Israele non cesserà di scorrere; vinceremo ma non ci sarà nulla di che gioire e, a partire dal giorno dopo, dovremmo ripensare a quale tipo di vita ci aspetta con i nostri vicini.
E con ‘vicini’ non intendo soltanto quelli confinanti lo Stato ebraico ma letteralmente i nostri vicini di casa, quelli che si commuovono sino alle lacrime quando rivedono Schindler’s List in TV ma poi espongono ostentatamente – e con palesi problemi di dissociazione mentale, storica e geopolitica – la bandiera palestinese fuori dal balcone, quelli che in una scuola svedese cantano ‘buon compleanno’ a tutti i loro compagni eccetto alla compagna ebrea, quelli che stanno alla reception di un grande hotel parigino e rifiutano la camera al turista israeliano o nel Veneto rispondono su Airbnb a richiedenti camera ebrei che l’unica camera da riservare loro è quella…a gas.
Perché, che ci piaccia o no e a meno che non si scelga di vivere in un deserto o di crearci un Bantustan ebraico, dal Medioriente all’Occidente questi ‘vicini’ sono nostri fratelli, viviamo con e in mezzo a loro, con essi lavoriamo, studiamo alle loro scuole o accade che i loro figli vengano da noi per comprare il pane, apprendere scienze e matematica o curarsi nei nostri ospedali.
Recita un antico proverbio arabo “Chi vive in un’isola deve farsi amico il mare”; noi siamo quell’isola ed è inevitabile che spetti a noi aprirci un varco tra onde e abissi di un oceano sempre più ostile. Dobbiamo farci accettare non semplicemente perché esistiamo ma anche e soprattutto per come agiamo, per quel che pensiamo e per ciò che saremmo in grado di fare per il genere umano.
Mettiamo su orchestre come fecero Daniel Barenboim ed Edward Said, apriamo biblioteche piene di libri che scrivano di noi e loro, cantiamo e suoniamo opere scritte dai migliori musicisti di qualsiasi latitudine; parola di musicista, le guerre cesseranno il giorno dopo ma, soprattutto, cesseranno le ragioni alla base delle guerre dato che verrà a mancarne il lievito madre.
“Sorse sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe”, è scritto in Esodo 1,8 a riguardo del Faraone che si mostrò ostile nei riguardi del popolo d’Israele che conviveva con gli Egizi da 400 anni; la non conoscenza dell’altro è la madre di odio, antisemitismo, guerre e quando si parla di non conoscenza dell’altro si intende la cultura, il pensiero, l’arte, la musica, il teatro, la letteratura altrui.
Riproviamoci e, se necessario, ripartiamo da zero, torniamo a Massa e Meriba con cantanti e orchestra e fracassiamone la roccia ancora una volta; sarà la terza volta, sarà la volta buona.

Francesco Lotoro