L’OPINIONE – Emanuele Calò: Abbiamo un problema
Applicare una terapia senza avere una diagnosi? Non lo farebbe nessuno. Quando ci si addentra nel campo delle emozioni, le narrazioni subiscono un forte scossone, forte abbastanza da influenzarne la percezione. Io non intendo aggiungermi alla sterminata schiera di soloni, ma non per modestia, bensì per dichiarata inettitudine.
Stiamo parlando di antisemitismo e. visto che ci siamo, faccio lo psicologo d’accatto e dico che ogniqualvolta si dice che l’antisemitismo è in crescita, si percepisce un senso perverso d’inconscia soddisfazione. Voglio scomodare la psicologia perché, quando non si vede ciò che è palese, laddove si escluda l’oftalmoiatra, non resta che lo strizzacervelli. So che il primo indiziato è il web, e so pure che lo segue a ruota il popolo degli stadi, so pure che qualcuno va a caccia delle bottiglie di vino con l’etichetta che raffigura il Führer oppure il Duce.
Tutto questo è molto consolatorio perché se ho paura – per dire – del buio, basta una lampadina purchessia. Invece, come ci sentiremmo se andassimo a vedere un certo provvedimento giudiziale del settentrione o, peggio, se ci rendessimo conto che chi primeggia nell’accanimento contro ebrei e Israele lo si trova facilmente fra la tribù di Ordinari & Associati? Qui entriamo difilato nelle procelle, perché prendersela col mentecatto delle curve è un gioco da bambini, mentre prendersela coi baroni è un gioco da adulti. Da ultimo, ho visto dei sussidiari firmati da ordinari, ho visto lettere che diventavano editoriali, ho visto che il 7 ottobre, «una raccapricciante replica degli orrori della Shoah» (copyright del nostro adoratissimo Presidente Sergio Mattarella), diventava “brutalità”, ho visto che nella TV pubblica il 7 ottobre diventava un attacco agli insediamenti dei coloni, ho visto che Netanyahu sarebbe speculare ad Hamas, ho visto, ho visto.
Ma che cosa ho visto e, soprattutto, che cosa avrei capito? Vedo e capisco che nel nostro profondo inconscio collettivo junghiano, non vuole entrare lo scenario che vede la cultura alta comportarsi con gli stessi pregiudizi della cultura bassa. Qui abbiamo una tensione fra l’istinto di sopravvivenza e il bisogno di capire. Quest’ultimo ci porta a vedere che il pregiudizio nei riguardi degli ebrei non è Arendt-ianamente banale ma Habermas-ianamente strutturale. Una prospettiva orripilante, ma l’alternativa sarebbe quella di fare come gli struzzi. Questo può andar bene per l’uomo della strada, ma meno bene per i molti che hanno la responsabilità di guidare noi, il gregge, per non ripetere l’esperienza dell’ultima guerra. Per intenderci, se applicassimo la definizione IHRA alla società culturalmente alta che ci circonda, il trauma sarebbe notevole. Sarebbe un bene essere divisi non fra borghesi e proletari, uomini e donne, laici e religiosi, bensì fra chi vuol vedere e chi non vuol vedere? Questo non lo so, ma, per contro, so che mangiare dell’albero della conoscenza comporta la cacciata dal Paradiso, beninteso, per chi ha la fortuna di abitarvi. Ma la storia ebraica è piena di pazzi visionari come Mosè, senza i quali saremmo ancora in Egitto. Insomma, buona parte dell’alta cultura nazionale ha un problema di pregiudizio, che traspare sia dall’accanimento che dagli inciampi, e io mi lamento: lo faccio come l’ho visto fare in Shakespeare, almeno così si capisce. Ho visto che chi si occupa di PhD lo capisce. Basterebbe ripetere e ripetere: qui c’è un problema, perché un conto è la critica, altro è andare oltre il seminato. Non abbiamo forse appreso che un cambiamento quantitativo porta a un cambiamento qualitativo?
Emanuele Calò, giurista