DAI GIORNALI DI OGGI – Bokertov 1 agosto 2024

I giornali aprono quasi tutti sul Medio Oriente. Qualche titolo dalle prime pagine: «Ucciso il capo di Hamas» (Corriere della Sera); «Ucciso Haniyeh, l’ira di Hamas» (Repubblica); «Colpo ad Hamas, ucciso il capo» (Messaggero); «Hamas decapitata. Ma non è finita» (Il Giornale); «Israele uccide il capo dei tagliagole di Hamas» (Libero); «Niente ambiguità sul Bin Laden di Hamas» (Foglio); «Vendetta chiama vendetta» (Avvenire).

«La guerra non deve diventare inevitabile», dichiara il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani al Corriere della Sera. Il ministro ribadisce la posizione del governo di Roma: «Come già abbiamo fatto in passato, a Israele diciamo che il diritto all’autodifesa è indiscutibile, ma che non si deve cadere nella trappola di reazioni alle azioni di Hamas e Hezbollah che siano sproporzionate». Così Amos Yadlin, a capo della direzione dell’intelligence militare dell’Idf, sempre al Corriere: «Io non posso sapere se Teheran risponderà. Ma so che Iran ed Hezbollah di solito si prendono del tempo prima di reagire, valutando i costi e i benefici di ogni azione. Penso che non attaccheranno gli israeliani nell’arena globale, quindi non colpiranno ambasciate o turisti come hanno fatto in passato». In caso di risposta, Yadlin ritiene più verosimile l’uso dei «loro proxy».

Per Aaron David Miller si va verso una guerra di attrito. «Gli iraniani sono abbastanza scaltri da sapere di non potersi permettere una escalation su vasta scala poiché i raid di aprile hanno dimostrato la capacità di Israele nel difendersi», afferma l’ex negoziatore Usa in un colloquio con La Stampa. Tuttavia, aggiunge Miller, «come abbiamo già visto, un errore di calcolo, un numero di morti accidentali in un attacco sotto qualsiasi circostanza, potrebbe innescare qualcosa di imprevisto».

Il duplice attacco contro Hezbollah e Hamas è in linea con quella che Repubblica chiama «l’eterna dottrina di Golda Meir», così definita perché la pratica delle esecuzioni mirate contro i terroristi ha avuto inizio subito dopo la strage degli 11 atleti israeliani ai Giochi Olimpici di Monaco ’72, quando Meir era primo ministro a Gerusalemme. L’obiettivo di fondo, si legge, «è sempre lo stesso: eliminare i nemici giurati dello Stato ebraico dovunque si trovino, come prezzo da fare pagare al terrore, deterrente e monito a chi pianifica attentati affinché sappia che prima o poi non resteranno impuniti».

Federico Rampini, in un suo editoriale sulla prima pagina del Corriere, tocca il tema del futuro di Gaza: «L’Arabia Saudita sarebbe pronta a finanziare la ricostruzione. Resta il bisogno di una regìa che coordini tutto, e che coinvolga perfino Pechino. I sognatori direbbero: si faccia avanti l’Europa. I realisti sanno che quella regia o sta a Washington o non c’è». L’esperto israeliano Kobi Michael, sentito ieri da Pagine Ebraiche, sostiene con il Messaggero che un’intesa per il rilascio degli ostaggi sia più vicina: «Sinwar ha capito in modo inequivocabile che Israele è molto determinato».

Per Fiamma Nirenstein (Il Giornale), Israele ha recuperato «due verità dimenticate nel corso dei trecento giorni della guerra: la prima è che ancora esiste intera la mitica capacità del Mossad e delle unità di combattimento di sapere progettare colpi in condizioni impossibili, la seconda è la dimensione geografica e ideologica della guerra che Israele deve combattere». Chi considera il jihadismo una minaccia «non può far altro che augurarsi che i pacifisti di tutto il mondo non abbiano dubbi su chi sia più incline a difendere la nostra libertà tra gli amici dell’ayatollah Khamenei e i nemici del terrorismo islamista» (Claudio Cerasa, Il Foglio). Secondo Davide Assael (Domani), tra chi in queste ore festeggia, al di là della retorica di facciata, ci sono i «governi nazionalisti arabi che vedono peggio del fumo negli occhi la galassia dei gruppi fondamentalisti emanazione della Fratellanza musulmana, da tempo gravitanti in orbita iraniana».