7 OTTOBRE – Fratelli in prigionia, il documentario candidato agli Emmy

«Questo film non è ancora ai titoli di coda. Io e Maya siamo a casa, ma Omer è ancora lì». “Con lì” Itay Regev, 19 anni, intende Gaza. Lui e la sorella, rapiti il 7 ottobre durante il Nova Festival, sono stati liberati. Ma il loro amico, Omer Shem Tov, è ancora ostaggio dei terroristi palestinesi. Finché non potranno riabbracciarlo, non riusciranno ad affrontare del tutto i traumi del rapimento e della prigionia, spiegano i due davanti alla telecamera. È il programma Uvda (in ebraico, fatto) a intervistarli sulla loro vita dopo il 7 ottobre, dalla prigionia al ritorno alla libertà.
Il documentario, intitolato «Fratelli in prigionia» e diretto da Yoram Zak, è tra i candidati all’Emmy Awards di quest’anno (16 settembre) nella categoria News e attualità. «Grazie Mia e Itay, eroi che ci hanno permesso di seguirli e raccontare la loro storia. Aspettiamo insieme Omar Shem Tov e tutti gli altri rapiti, che tornino finalmente a casa», ha affermato Ilana Dayan, conduttrice di Uvda.
Sia Itay sia Maya sono stati feriti alle gambe dai terroristi di Hamas. Di recente Maya, 21 anni, ha pubblicato un video della sua riabilitazione: dopo mesi, sta tornando a camminare. Ad aprile Itay ha raccontato la sua storia a Roma, ospite della Comunità ebraica locale. «Ci hanno rapiti e appena sono arrivato a Gaza ho pensato a come suicidarmi, anche perché non ero con mia sorella. In seguito, ho pensato che se sono sopravvissuto al 7 ottobre e al resto è perché D-o vuole vivi me e mia sorella», ha ricordato durante il suo incontro romano. Poi ha parlato dell’amico Omer. «Sono stato prigioniero con lui per 52 giorni: per me è come un fratello maggiore. È la persona che mi manca di più e farò di tutto per riportarlo a casa».

Le torture a Gaza

Nel documentario il giovane racconta il momento del rapimento. «I terroristi hanno scaricato cinque caricatori sul veicolo», racconta Itay nel film sui momenti del rapimento da parte dei terroristi di Hamas. «Hanno sparato contro la nostra auto. Mi hanno colpito a una gamba. Poi due secondi dopo hanno sparato a Maya. Ho visto le mie gambe piene di sangue, i miei pantaloni con un buco. Penso ci fossero circa nove terroristi attorno a noi. In quel momento ho visto i cadaveri e ho visto i kalashnikov venirmi incontro». I suoi aguzzini hanno tirato fuori dall’auto lui e gli altri. «Mi hanno sdraiato per strada e puntato la canna della mitragliatrice in testa. A quel punto stavo solo aspettando lo sparo. Ho accettato di morire. Ho ringraziato per aver vissuto 18 anni». La sua storia non si è conclusa il 7 ottobre. Lui, la sorella e Omer sono stati portati a Gaza dai terroristi. Qui sono stati operati e, racconta Maya, i medici palestinesi più che curarla l’hanno torturata. Uno ha preso un coltellino e ha iniziato a incidere la carne esposta della sua ferita, ignorando le suppliche della ragazza di fermarsi. «Avrei voluto dargli un calcio in faccia, ma lui aveva una pistola e io non avevo niente, quindi sono stata zitta». Maya ha anche descritto come Omer si sia preso cura di lei, l’abbia calmata e aiutata a non urlare di dolore. Gli aguzzini di Hamas avevano vietato loro di fare qualsiasi rumore. «L’unica cosa che voglio fare è andare da Omer è dirgli: andrà tutto bene», afferma la giovane nel documentario.

d.r.