TISHA BE AV – Il lutto e la speranza
Nel calendario ebraico la data del 9 di Av – Tisha Be Av si distingue quale giornata di digiuno, di preghiere e di lutto nel ricordo della distruzione del primo e del secondo santuario di Gerusalemme. Il primo quello costruito dal re Salomone e distrutto nel 586 a.e.v. dalle truppe babilonesi agli ordini del sovrano Nabucodonosor. Il secondo edificato dagli ebrei tornati dall’esilio di Babilonia e distrutto nel 70 e.v. dai soldati romani agli ordini di Tito. Nella stessa data e in giorni a essa vicini sono altresì ricordati altri tragici eventi della storia ebraica, tra cui la cacciata degli ebrei dalla Spagna, nel 1492 e alcuni tra i più terribili episodi della Shoah. Questa giornata, che già riassume molteplici tristi ricordi e significati, si svolge quest’anno in un clima di particolare angoscia e sgomento per i drammatici eventi in corso iniziati con l’orrendo massacro del 7 ottobre. Nel libro biblico delle Lamentazioni – Ekhà – che viene letto la sera e la mattina del nove di Av viene espresso il ricordo della prima distruzione di Gerusalemme, sono descritte le sofferenze le umiliazioni subite, il senso di smarrimento per una catastrofe che si credeva impossibile a realizzarsi, malgrado i numerosi avvertimenti dei profeti, troviamo il senso di solitudine per essere stati abbandonati e traditi da paesi che si ritenevano amici fidati, incontriamo la sollecitazione a riflettere sulle colpe che avevano determinato la caduta del Tempio, percepita come una punizione divina; vengono anche lette elegie che associano l’antica catastrofe con altre avvenute nel corso della lunga storia del popolo ebraico, durante queste letture i fedeli sono seduti a terra come è consuetudine delle persone in lutto si leggono i testi alla fioca luce di candele, dopo aver rimosso i paramenti e gli ornamenti sacri delle sinagoghe.
Per comprendere le ragioni per cui la distruzione del Santuario sia così fortemente sentita ed evocata e si mantenga nel ricordo dopo quasi duemila anni, dobbiamo ricordare il valore e l’importanza che il pensiero ebraico attribuisce al Santuario e in una più ampia visione anche alla città di Gerusalemme. Il Santuario non era solo un edificio consacrato ove si compivano i riti e le offerte sacre prescritte nella Torà: era molto di più. Già il luogo ove era stato edificato aveva, secondo la tradizione, un significato speciale essendo il posto nel quale il Signore aveva messo alla prova il patriarca Abramo fino al punto che questi aveva legato sull’altare il figlio Isacco per l’estremo sacrificio, un gesto di fede profonda che D-o giura al patriarca di ricordare come particolare merito di benedizione per il popolo che da lui sarebbe disceso; anche per questa particolarità del luogo ove era posto, il Bet Hamikdash rappresentava l’espressione concreta dell’intenso legame mistico e spirituale tra l’Eterno e il popolo ebraico, un legame basato sui comandamenti di santità al quale Israele si era impegnato e attraverso i quali la Shekhinà , la Presenza divina si irradiava dal Santuario a tutto il popolo, come scritto nel Libro dell’Esodo “Mi faranno un Santuario ed IO dimorerò in mezzo a loro”; non solo, il Santuario era idealmente considerato come il cuore pulsante dell’universo attraverso il quale si manifestava più intensamente la provvidenza divina, era percepito come sorgente di vita, di benedizione e di prosperità materiale e spirituale per il mondo intero. Questo luogo sacro rappresentava anche un segno ideale e concreto di unità per tutto il popolo ebraico, infatti tre volte all’anno, nelle feste di Pesah, di Shavuot e di Sukkot, ovvero Pasqua, Pentecoste e Capanne, gli ebrei provenienti da ogni luogo, dentro e fuori la terra d’Israele, salivano al Tempio di Gerusalemme a rendere omaggio al Signore e a rinsaldare i legami di fraternità e condivisione. Il Santuario avrebbe dovuto essere il luogo in cui la manifestazione del servizio di fede all’Eterno si coniugasse con la ricerca della giustizia e della misericordia, per questo la corte suprema, il Sinedrio, aveva la sede principale presso il Santuario. Purtroppo questa sintesi di fede, giustizia e misericordia fu spesso gravemente disattesa e prevaricata causando la profanazione della stessa santità di Yerushalaim (Gerusalemme) e risultando quindi, come più volte ribadito dia profeti, causa della distruzione del Santuario stesso.
Il ricordo di Gerusalemme e del Santuario distrutto accompagna l’ebreo ogni giorno, nelle tre preghiere quotidiane, nelle celebrazioni dei giorni di festa, in tanti gesti e particolari della ritualità e della vita, fino a caratterizzare persino il momento più lieto della vita, la cerimonia del matrimonio che si conclude con la rottura di un bicchiere al termine delle benedizioni nuziali e la pronuncia delle tre formule di impegno solenne a mantenere il ricordo di Gerusalemme, come sono espresse nel salmo 137: “Se ti dimenticherò, o Yerushalaim, che la mia destra dimentichi (come muoversi), possa la mia lingua rimanere attaccata al palato se non conserverò il tuo ricordo, se non eleverò Yerushalaim al di sopra della mia più grande gioia”. Per riflesso, anche le parole di conforto nel momento di grande dolore per la perdita delle persone più care esprimono il ricordo della distruzione del santuario “Il Signore vi conforti insieme a tutti color che si dolgono per Yerushalaim e Zion.”
La memoria della distruzione del Santuario – come già accennato – è anche occasione per riflettere sulle cause che lo hanno determinato, nella tragica fine del primo Santuario furono il diffondersi in Israele dell’idolatria mediata dai popoli circostanti, nonché l’incapacità di realizzare quel modello di giustizia e di attenzione solidale per i più deboli che è un motivo dominante nella legislazione biblica; nella distruzione del secondo Tempio furono soprattutto determinanti le lacerazioni interne, le infinite rivalità, lo smarrimento di parole e dialoghi di pace all’interno stesso del popolo ebraico. Meditazioni anche nel presente di assoluta attualità.
Il libro di Ekhà della Lamentazioni che si apre con le espressioni di sgomento e dolore accorato si chiude invece con le parole di speranza, con l’invocazione all’Eterno affinché il dialogo si riapra e il legame con il Signore, da cui dipende la vita dell’uomo, possa rinsaldarsi: “Facci tornare o Signore a Te e ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico”. Questa ritorno sincero a D-o è una sollecitazione che possiamo intendere come un appello a tutti gli uomini, come condizione affinché giungano a compimento le promesse di pace dei Profeti, quando il Santuario ricostruito e la città di Gerusalemme non saranno più obiettivi di conquiste belliche, realizzate o progettate, ma diverranno meta di percorsi di pace e di ispirazione, quando i popoli- come preannuncia il Profeta Isaia si inviteranno l’un l’altro a salire sul Monte del Signore a Gerusalemme, per riceverne insegnamento, nel tempo in cui “Nessun popolo alzerà la spada contro l’altro e non impareranno più la guerra” (Isaia 2, 1-4).
Rav Giuseppe Momigliano
Brano tratto dal programma “Feste e celebrazioni ebraiche” di Rai Radio 1 – 12 agosto 2024
(Nell’immagine, un dettaglio dall’Arco di Tito: gli ebrei trasportano a Roma il bottino degli oggetti depredati dal Tempio di Gerusalemme distrutto dai Romani)