Katja Petrowskaja a Pagine Ebraiche: «Scrivo per resistere»

«I miei traduttori in effetti parlano tedesco meglio di me, probabilmente». Mentre sorride alla sua traduttrice, Ada Vigliani, Katja Petrowskaja racconta come la lingua in cui scrive non solo non sia la sua “mameloschen”, lingua madre, ma neppure la sua seconda. Nata a Kiev, ha studiato in quella che allora si chiamava Unione Sovietica per poi tornare in Ucraina. È arrivata solo trentenne al tedesco, quella che per la sua famiglia è ancora “la lingua del nemico”. Una lingua cui, spiega, ha provato a restituire l’innocenza. Quando ha scritto Forse Esther, il libro che l’ha portata al successo, ha scelto il tedesco anche perché voleva a tutti i costi evitare fosse un testo di memorie: «Era un libro molto intimo, avevo bisogno di allontanarmi da una storia fin troppo personale, ho usato allora una lingua che mi ha permesso quella distanza che era per me assolutamente necessaria. Sarebbe stato insopportabile, altrimenti, sarebbe stato troppo doloroso».
Dopo il successo di Forse Esther non era affatto scontato che Katja Petrowskaja avrebbe pubblicato un altro libro.
Forse Esther è uscito ai tempi dell’invasione della Crimea, mentre La foto mi guardava è stato pubblicato, sempre in Germania, allo scoppio della guerra in Ucraina. «È stata una coincidenza difficile, entrambe le volte: mi è parso di essere in ritardo, di essere stata sconfitta». Sono state allora proprio le fotografie a riattivare una modalità di scrittura che non era sicura avrebbe ritrovato: le immagini che ha accompagnato con i suoi testi, ogni tre settimane, per il domenicale della Frankfurter Allgemeine, il più prestigioso quotidiano tedesco, non sono frutto di una scelta metodica, razionale. «La prima, il ritratto di un minatore ucraino, mi è stata mandata da un’amica. Era uno scatto figlio della sofferenza, e il testo un frutto della mia incapacità di gestire il mio stesso silenzio. Era il 2015, quella fotografia in un certo senso mi ha ridato la voce». Ogni “racconto”, spiega Petrowskaja, è più il frutto di un incontro che il risultato di un ragionamento: sono immagini che la colpiscono, che risuonano con qualcosa di profondo.
«C’è l’impressione del momento, la sensazione che sia qualcosa di importante, un senso di urgenza e anche se le immagini non mi abbandonano l’avvicinamento poi è lento, come se io ritrovassi i tempi dell’analogico. Qualcosa di simile a quanto racconta Cortazar in Le bave del diavolo, il libro da cui Michelangelo Antonioni ha tratto Blow-up. È un meccanismo che, anche se in maniera molto diversa, avevo usato in un capitolo di Forse Esther, ma ora mi ha portata a percorrere strade differenti». Tiene a sottolineare che nonostante sia un lavoro di anni – e che peraltro continua tuttora – non c’è un metodo, non analizza le immagini partendo da una idea. Prevale la sensazione di inevitabilità, la necessità di non restare solo a guardare. «A volte non abbiamo scelta. Io per esempio è dal 2022 che scrivo della guerra. È una sconfitta continua, in un certo senso, le mie parole non possono servire a fermarla. Ma è una forma di resistenza. La mia Resistenza. E non posso farne a meno».

Ada Treves

(Foto Sasha Andrusyk)